Fury, una piacevole scoperta

Penso che da solo, al cinema per vedere Fury, non ci sarei andato. Dopo esserci finito per caso, con un amico, mi sono pentito della superbia intellettuale: è stata una piacevole scoperta. L’ultimo film di David Ayer non è quella che in gergo si chiamerebbe “un’americanata”. Tutt’altro: è un film che parla della Seconda Guerra Mondiale, ma il cui centro di attenzione non è solo la trama.

La vicenda gira attorno alla piccola brigata a cui è a capo Don Collier (Brad Pitt) nelle vesti di sergente veterano ormai versato nell’arte della guerra. Dopo la morte in combattimento del mitragliere del tank – chiamato appunto Fury – della truppa di Collier, viene presa a bordo una recluta, il giovane Norman, che fino a quel momento aveva servito il suo paese al fronte nelle retrovie, in qualità di dattilografo. Il regista sfrutta gli occhi impressionabili del giovane per far riflettere lo spettatore sulle inutili atrocità della guerra. Significativa a questo scopo la scena dell’uccisione dell’unico prigioniero di guerra catturato durante un’incursione per liberare la strada da postazioni anticarro. Collier infatti vuole sfruttare questa occasione per consentire a Norman di effettuare la sua prima uccisione, azione verso la quale il giovane è parecchio riluttante. Prima che il sergente stesso “aiuti” la mano di Norman a sparare, è facile convenire sull’assurdità della situazione: un uomo che non vuole assolutamente farlo è costretto a sparare su di un altro che non vuole, ovviamente, assolutamente morire, che mostra disperato le foto della sua famiglia, ma che porta un’uniforme non a stelle e strisce. Qui la guerra si spoglia delle vesti epiche con cui spesso è ricordata o rappresentata per mostrarsi nella sua reale essenza, una carneficina senza senso e giustificazione.  Inoltre va ricordato ciò che spinge Collier alla decisione di affidare al ragazzo la morte del prigioniero. Mentre la fila di carri armati, tra cui Fury, avanza in colonna lungo un sentiero, Norman avvista dei ragazzi giovanissimi nel bosco affianco, tedeschi, senza denunciarli: ciò causa la morte del capo plotone Parker che viaggia sul tank che apre la fila. Il comportamento di Norman fa infuriare Collier che decide di punirlo. Tuttavia la morte dei giovanissimi in guerra è riproposta qualche scena più avanti. Non appena Norman si congeda dalla ragazza con cui ha stretto un legame affettivo durante un bivacco del battaglione in una cittadina tedesca, la casa in cui la giovane risiede viene rasa al suolo da un colpo di artiglieria: tutte le promesse dei due amanti andate in fumo in un batter d’occhio e l’animo di un povero soldato costretto a inaridirsi e riempirsi del desiderio di vendetta.

L’ultima scena del film, quella che mostra come un solo carro armato, Fury, riesca a sbaragliare centinaia di truppe prima di essere annientato e come Norman, sotto la guida del saggio Collier morente, riesca addirittura a sopravvivere, non deve essere giudicata in base a quanto possa essere realistica o meno (è ovviamente molto improbabile che un evento simile accada realmente): essa, infatti, da un lato restituisce al pubblico quell’epicità tipica del combattimento facendo godere gli occhi di uno spettacolo artistico, che è quello delle scene di azione estreme. Dall’altro consente di giungere all’inquadratura finale che riporta il film sui binari dai quali era partito: la vicenda si chiude con un’inquadratura dall’alto, che via via si allarga, del tank Fury ormai fuori uso circondato da un mare di cadaveri. Sul piano esistenzialistico, la vittoria del solo Norman in quello scontro finale è una minuscola consolazione tra le centinaia di vite troncate: giovani o vecchie, tedeschi o americani, buoni o cattivi.


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