La città che abito, mi respinge, si chiama zero.
Dai muri di arenaria delle case trasuda la corpulenza di un falso benessere, si sprigiona una perfezione tradizionale, di una borghesia sovrana, burocrate.
Si scorgono le case coi tetti aguzzi e i villini della vecchia città. Là conta chi è nato per fare la legge, là ciò che non è in regola viene ignorato, si raccolgono dossiers là, tutti bene enumerati sopratutto con il bordo ben in riga.
A volte cade una stella e ride.
Steinzeit, “silviasilviosilvana”, Mariella Mehr, 1981.
Mariella Mehr, classe 1947, è una scrittrice, poetessa e giornalista svizzera di origini Jenish; è una delle oltre seicento vittime, Jenish e zingare, del progetto rieducativo in chiave civilizzatrice promosso dalla Pro Juventate, società filantropa attiva in Svizzera negli anni venti del secolo scorso. Strappati in tenerissima età dalle famiglie, sradicati radicalmente e irreversibilmente dalla comunità d’origine, i bambini venivano prima rinchiusi presso appositi istituti rieducativi, al fine di beneficiare degli egregi servizi prestati dalla zelante sezione “Opera di soccorso per i figli della strada”, e in un secondo momento, completamente detersi dal lordume culturale nomade, affidati a famiglie contadine; elettroshock, abusi sessuali, percosse, sterilizzazioni, terapie chimiche: queste le misure correttive volte al raddrizzamento della razza tarata.
Steinzeit, letteralmente tempo di pietra, tratteggia, servendosi della tecnica narrativa, quanto psicoanalitica, dello stream of consciousness, il percorso psicoterapeutico dell’autrice, a conclusione del quale la psiche della stessa, significativamente “spezzata”, “distrutta” nella pluripersonalità dissociata di silviasilviosilvana, ritrova, per mezzo di un processo ricompositivo, un’unità costitutiva.
Dei volti cominciano a abbozzarsi, dapprima smorfie, ai volti si accostano esperienze assolute di morte; accaduti in questo luogo, da secoli eccezionale, oltre ogni sospetto, i cui abitanti, educati alla falsa comprensione sociale, pregano ogni sera per una sazia tranquillità. E coloro che sanno di questa falsità, tacciono, perché devono tacere perché sono stati spiritualmente mutilati della propria identità.
Da due giorni ho cominciato una terapia, che dovrebbe aiutarmi a imparare a vivere finalmente. da trentuno anni non ho fatto altro che sopravvivere. Il prezzo è stato alto. Silvana prima Silvia o anche Silvio – è alcolista, farmacodipendente, incapace di inserimento sociale, in stato di depressione, angosciata, ribelle, incontrollabile. Silvana è un grido.
Estirpare il nomadismo, abolire l’asocialità, esecrare le peculiarità etniche e culturali, debellare la cultura tradizionale premoderna; in nome dell’ ordine sociale, della comune sensibilità nazionale, in nome dell’ aggregazione di quella maggioranza che si alimenta del disprezzo socialmente condiviso nei confronti delle fasce più deboli, dei diversi, in nome di un’ economia di mercato che ci vuole tutti uguali, tutti consumatori.
2015, Italia.
Faccio zapping, coricata sul divano; un talk show, Bonanno, Lega Nord, vomita esternazioni borderline tra i goliardici applausi del pubblico, “Sono la feccia della terra“, sbraita, paonazzo, “Schediamoli, tutti“.
“I campi nomadi andrebbero rasi al suolo, immediatamente“: l’infelice, quanto, a livello contenutistico, incosistente exploit di Matteo Salvini di qualche giorno fa si ridelinea, molesto, nella mia mente, importunata e contrariata. Cambio canale.
E poi, aspetta, quali campi Rom? Quei campi Rom composti da infrastrutture fatiscenti, luridi, versanti in condizioni sanitarie pessime, quei campi Rom che le amministrazioni comunali, di qualsiasi colore politico, destra estrema compresa, hanno, nel corso degli anni, eretto, squallidamente, utilizzando irresponsabilmente denaro pubblico? Che risposte ha dato a queste persone, molte delle quali italiane (70000 contro i restanti 110 000 di origine europea e extracomunitaria) la politica italiana? E’ possibile che 180000 persone disperse in tutta la penisola, poche migliaia delle quali residenti nei campi, possano, così insistentemente, costituire l’oggetto delle più ridicole dissertazioni accusatorie dei politici italiani? La questione italiana è la questione Rom? A ogni modo, chi si è preoccupato delle loro peculiarissime istanze? Quali i progetti d’integrazione sociale, soprattutto in riferimento ai minori? Le dinamiche sociali, popolari, di esclusione, non cambiano, immutate si ripresentano, ostinate e coscienti della propria forza, generazione dopo generazione; ma, l’azione politica dovrebbe presentarsi come l’arte della gestione degli umori popolari finalizzata al benessere collettivo, al bene comune, giusto? Dovrebbe placare gli animi populisti, indirizzare le forze del Paese, verso altre, significative ed edificanti, prospettive di impegno sociale. Eppure..
Eppure spengo la tv.
CREDITS
Un commento su “Steinzeit, tempo di pietra”
Bell’articolo