“Noè, che era agricoltore, cominciò a piantare la vigna e bevve del vino; s’inebriò e si denudò in mezzo alla sua tenda.”
Gli effetti comportamentali della frutta fermentata sono ben noti sin dall’antichità: il consumo di alcol risale all’inizio della storia dell’umanità, come ricordato anche da testi come l’Antico Testamento. Il vino ha assunto significati simbolici molteplici, adattandosi a culture differenti: lo dimostra l’importanza del consumo di vino durante le festività pasquali ebraiche e cristiane.
Nel periodo della Pasqua ebraica, che ricorre quest’anno dal 4 all’11 aprile, si impone ogni sera il consumo rituale di quattro bicchieri di vino rosso, per celebrare la sacralità della vigna, simbolo di rinascita e primavera. Ugualmente consigliata è questa varietà di alcolico ai cristiani, che nello stesso periodo lo accompagnano al pane (corpo di Cristo) con la simbologia del sangue del Messiah.
Il consumo di questo tipo di bevande è oggi tuttavia, nella maggioranza dei casi, finalizzato al piacere del palato o ai suoi apparentemente temporanei effetti sul cervello.
Nel nostro fegato è contenuto un enzima finalizzato al metabolismo di questa sostanza, l’alcol deidrogenasi, grazie al quale ricaviamo una grande quantità di calorie (il che spiega come mai possa far ingrassare). Tale enzima ha però dei limiti di quantità e non in tutti è efficiente allo stesso modo: molti individui di origine asiatica, ad esempio, sono spesso più soggetti all’ubriacatura precoce per questioni genetiche.
Grazie a questo enzima, 8 g o 10 mL di etanolo all’ora (per un uomo di 70 kg) sembrerebbero non dover causare danni né effetti di alcun tipo se non di tipo energetico. Tuttavia la produzione delle sostanze che aiutano questa via metabolica è dispendiosa anche per l’organo più grande del nostro corpo, che potrebbe doversi ingrossare, o accumulare grasso in conseguenza dell’eccesso di lavoro richiesto o di calorie prodotte.
Si tratta di effetti a lungo termine, tenuti in scarsa considerazione dai bevitori che, invece, ricercano proprio gli effetti che il fegato cerca di evitare: l’alcol viaggia facilmente in circolo e va ad agire sulle membrane delle cellule, rendendole più fluide, malleabili. Se questo accade a livello di sistema nervoso, i neuroni divengono più propensi a “liberare” i neurotrasmettitori, che causano effetti diversi a seconda della localizzazione.
Penetrando attraverso la barriera ematoencefalica, che protegge il cervello dalla maggioranza delle sostanze potenzialmente tossiche, l’etanolo può agire anche sui recettori di questi neurotrasmettitori. Così compaiono, in maniera difficile da prevedere, le cosiddette “sbornie tristi”, in cui, forse, sono maggiormente implicati i recettori della serotonina (che sembra essere implicata nel dare le sensazioni positive che si hanno invece nel caso delle sensazioni positive più ricercate).
L’effetto di dipendenza e apparente piacere dovuto a questa sostanza è stato studiato anche in relazione a quello dei cannabinoidi, che assunti in associazione danno spesso un’amplificazione degli effetti. (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3327810/)
Non ogni forma di alcol sembra però, anche secondo l’opinione di alcuni scienziati, essere soltanto nociva: sono emersi ad esempio studi sugli effetti antiossidanti (benefici) del vino (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3057746/), che sembrano aver dato luogo al “Paradosso Francese”, la minore incidenza di morte per malattie cardiovascolari nelle aree in cui in particolare il rosso sembra essere consumato in maggiore quantità. La stessa cosa non vale tuttavia per birra e altre bevande con una bassa concentrazione alcolica.
Non sembrano dunque errare, dal punto di vista della salute dei fedeli cristiani e ebrei che incoraggiano l’assunzione di vino in quantità moderate, pur mettendo in guardia dagli effetti come la nudità di Noè. Tuttavia anche l’islam, con la proibizione assoluta di qualsiasi bevanda alcolica, sembra essere supportabile in questo anche dal punto di vista scientifico.
I disordini legati all’uso di alcol sono, infatti, oltre che molto estesi (8,5 % della popolazione americana maggiorenne) anche molto costosi per i sistemi sanitari o, nel caso dell’America, le assicurazioni (185 miliardi di dollari all’anno, secondo i dati NIAA del 2009).
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