di Victor Attilio Campagna
Luca Gibillini (1976) è consigliere comunale per la lista Sinistra Ecologia e Libertà. Laureato in Storia contemporanea a Bologna, ha collaborato con alcuni quotidiani (Corriere della Sera e Italia Oggi) e lavorato in Rizzoli e al Touring, per poi dedicarsi alla progettazione di politiche giovanili, pari opportunità e cooperazione internazionale per la Provincia di Milano. Oltre a questo si è distinto nell’attività in varie associazioni, tra cui il Mayday e il movimento per la pace. Ha sempre avuto un occhio particolare per il lavoro culturale e per la diffusione di quelle culture sotterranee che faticano a uscire. Ho parlato con lui a lungo di questioni legate a cultura e amministrazione comunale, proseguendo il percorso iniziato con Capelli, per capire che cosa sta facendo il comune in questo ambito. L’intervista è particolarmente lunga, purtroppo o per fortuna, speriamo di non annoiarvi.
Milano per anni non si è distinta come città culturale, ma come città della moda e del design. Ora abbiamo un governo di sinistra, sono passati quattro anni ed è tempo di bilanci. Quindi, Pisapia è riuscito a mantenere la tradizione di sinistra foriera di cultura, o no?
Due premesse. Anzitutto è una questione di percezione collettiva d’identità della città: Milano fin dagli ’80 ha avuto una percezione di sé basata sulla laboriosità e su alcune eccellenze. Infatti le precedenti amministrazioni di centrodestra hanno molto puntato su queste ultime, che sono diventate il biglietto da visita della città, soprattutto nel campo del design e della moda. Un po’ per i grandi eventi, un po’ perché a Milano ci sono i loro principali marchi. Questa però è un’identità fasulla, perché Milano ha sempre avuto una straordinaria pluralità di identità. Ci troviamo nella città plurale per eccellenza, più di altre metropoli europee. Da qualsiasi lato guardi il prisma della città di Milano vedi un mondo diverso.
Ci faresti alcuni esempi di questa pluralità culturale?
Ti faccio tre esempi. Dell’ambiente musicale italiano underground è Milano la città da cui sono usciti i gruppi più famosi. Tra metà anni ‘80 e 2000 è considerata in alcuni ambienti del mondo come una delle principali città della musica underground, che nasce al di fuori del mercato tradizionale. L’Hip hop in Europa nasce a Milano, così come alcuni dei maggiori gruppi italiani, tra cui i Subsonica e gli Afterhours. A Milano hanno trovato un terreno fertile per esibirsi, perché qui ci sono luoghi che hanno costruito dei palchi che altrove non esistevano, come il Leoncavallo o i circoli Arci.
L’altro esempio è la street art. Oggi vengono da New York artisti e galleristi a cercare giovani street artist, perché la street art ha iniziato a diffondersi da Milano con i muri liberi e qui ha avuto i maggiori riscontri.
Si è generato così un tessuto culturale che esisteva nonostante l’immagine più superficiale di Milano.
Il terzo esempio, che è il più sotterraneo paradossalmente, è quello dei templi della cultura. Noi abbiamo La Scala, il Piccolo, l’Elfo, ma non riproduciamo mai Milano città del teatro e della musica, questo è un grande errore.
E oggi cosa si sta facendo?
Dal 2011 a oggi si è provato a rappresentare Milano città della cultura. Milano è diventata la prima città museale in Italia, dal settimo posto in cui era, per numero di visitatori di musei. Abbiamo ottenuto questo risultato attraverso la valorizzazione e promozione di alcune mostre che sono diventate le più visitate d’Italia. Più degli Uffizi si vanno a vedere le mostre al Palazzo Reale per intenderci. Questo dato non è ancora pienamente percepito.
Non a caso a Milano il turismo culturale è aumentato del 300%: il turismo tradizionale del business va calando. Abbiamo semplicemente messo a valore quello che già avevamo, costruendo un sistema culturale che è diventato anche proposta di una Milano città culturale. La Bocconi ha calcolato che ogni euro investito a Milano per la cultura, ne rende tre. E questo è solo uno dei vantaggi economici, che non calcola l’importanza sociale del far percepire Milano come città profondamente culturale. C’è poi un secondo aspetto, che è lo sviluppo della costruzione culturale a Milano, che ha ingenerato discussioni interne.
Ovvero?
Una della ragioni per cui la cultura a Milano faticava a emergere era la mancanza di opportunità. La sfida era concederle. Abbiamo tolto la logica dell’amministrazione come bancomat in ambito culturale, in cui l’amministrazione, appunto, finanziava il singolo progetto o associazione e basta. Abbiamo cioè investito in sistemi di costruzione di opportunità culturale, ponendo al centro il tema della cultura diffusa, facendola uscire dai luoghi tradizionali. L’obiettivo è costruire cultura diffusa per la città.
Penso di poter dire che a Milano con tre o quattro atti si è riusciti ad avere una vera e propria manifestazione di cultura dal basso.
Che atti sono?
Piano city ne è un esempio: in questo evento abbiamo organizzato dei concerti in una giornata con un cartellone unico, aumentando gli accessi ai concerti di musica classica in maniera esponenziale.
Bookcity è un altro esempio, in cui si è puntato sull’accessibilità al libro, che è tornato protagonista a Milano. In questo senso, sono state approvate anche delle delibere per abbassare gli affitti alle librerie. Non a caso nel 2015 Milano è diventata la città del libro. Perché appunto si sono fatte queste manifestazioni di apertura della cultura alla cittadinanza.
Posso dire lo stesso per la Festa della musica. L’anno scorso c’è stata la prima edizione, in cui abbiamo organizzato circa 100 concerti il 21 marzo, come si fa in Francia durante la Fête de la musique.
Infine il tema regolamentatore sugli artisti di strada, che ho presentato io stesso. Oggi per un artista o un musicista è difficile anche solo trovare un luogo in cui esibirsi. Per questo abbiamo costruito un sistema di facilitazione per l’esibizione in strada, mettendo in campo una piattaforma internet dove iscriversi come artisti di strada, per esibirsi. Ad ora abbiamo 12 mila iscritti, che durante l’anno si esibiscono.
Così si porta strutturalmente la cultura vicino alla cittadinanza: non più luoghi in cui la cittadinanza deve andare per fruire la cultura, ma cultura che va incontro alla cittadinanza direttamente. Siamo la terza città al mondo per l’arte di strada.
C’è poi da dire che tanti musicisti che sono partiti dalla strada hanno fatto degli album, come Matteo Soltanto.
L’ultimo aspetto è stata l’attivazione dello Sportello Unico del Pubblico Spettacolo: un luogo unico e fisso in cui chi vuole fare uno spettacolo non di strada, ma “tradizionale”, può rivolgersi saltando l’iter precedente, in cui si doveva andare in 17 diversi sportelli. Oggi con lo sportello unico si moltiplicano le occasioni di poter organizzare eventi. La presenza di EXPO porterà a Milano più di 1500 eventi culturali, dalla musica in piazza, fino alle mostre all’aria aperta, corsi e così via…
Insomma, il comune sta costruendo un sistema di valorizzazione dell’attività culturale.
Con una forma di autosostentamento per chi fa cultura…
Esatto, tutto per creare nuove opportunità. Uno dei più bei slogan finanziato dal comune e dalla Fondazione Cariplo è il progetto Musica e lavoro, di Musica After. Questo progetto si basa sul fatto che non basta suonare la chitarra, ma bisogna anche saper produrre lavoro culturale, impresa culturale, con la capacità e finalità di autosostentarsi.
Quello che dico sempre è: noi ti diamo gli strumenti, ma sei tu a doverli mettere a frutto, così se non ci riesci sai perché… Molto spesso l’artista si sente tarpate le ali perché gli mancano le opportunità. Con questa creazione di opportunità finalmente può mettersi alla prova e capire se è davvero la sua strada. Questo è l’approccio alla cultura che si è iniziato.
Di recente è uscito un articolo su Repubblica dove si parla di una polemica su certi tipi di graffiti, considerati non artistici. Come fa il comune a fare le debite differenza?
Il comune ha deciso di aprire una campagna di dissuasione rispetto alle tag. Siamo partiti da una considerazione: noi possiamo fare una battaglia alle tag solo quando saremo in grado di mettere in chiaro il discernimento che tu dici. Così da sostenere chi è un artista, chi tenta di fare dell’arte, identificando i muri ciechi e così via, dove permettere a chi lo vuole di esprimere la propria arte. Un esempio è in Barona, al Barrio’s è stato fatto un murales che viene rifatto ogni sei mesi da artisti che turnano. Il punto è che non siamo riusciti a portare a compimento la valorizzazione dell’arte murale e ci troviamo al punto che tanti cittadini ci chiedono di intervenire.
In effetti si fa fatica a percepire l’esistenza di una street art. Keith Haring, Banksy, Basquiat nascono tutti come street artist e sono diventati artisti museali.
Dovremmo identificare, mappare, 50 grandi muri a Milano, metterli a disposizione per la street art. Alcuni liberi, altri consociati con associazioni di graffitari, altri che si rifanno ogni sei mesi, con una turnazione di artisti, sulla scia del Barrio’s. Bisognerebbe fare questo, ma non stiamo riuscendo a mettere in atto questo mappaggio.
È solo una questione di tempo quindi?
Spero di sì.
Passiamo a un altro versante. Parigi è caratterizzata anche da luoghi associati a grandi esponenti della cultura, come i bar in cui andavano poeti e artisti. Questo fa anche turismo. A Milano hanno vissuto Montale, Quasimodo, Sereni, Testori… Insomma, il Gotha della letteratura mondiale ha vissuto nella nostra città. Perché non riusciamo a fare un’operazione del genere? Ad esempio, in via Bigli, nessuno sa che abitava di Montale: farlo sapere sarebbe un bel modo per aumentare la visione di Milano città culturale.
Parigi ha una cultura di conservazione del suo patrimonio storico culturale consolidata che Milano non ha purtroppo. E non si può costruire una cosa del genere solo con una guida in cui si indicano luoghi in cui poeti o scrittori prendevano il caffè. Si tratta ancora di un’auto-percezione che deve essere costruita in questo senso.
Milano non si è mai rappresentata come città della grande Letteratura mondiale, se non per Verdi. Milano si è sempre presentata come città dell’innovazione, per cui il bar preferisce innovarsi, piuttosto che porre le sue basi sulla storia culturale: è una questione di tessuto sociale, molto profonda. C’è un modo diverso di interpretare la città, su cui è difficile agire sul breve termine. Abbiamo provato a fare un’operazione del genere su alcune figure. Un esempio può essere la casa museo della Merini, una delle principali poetesse contemporanee. Però sono effettivamente parzialità. Il punto è che la trasformazione è lenta. Milano sta mettendo a sistema l’immagine di città culturale, i turisti cominciano ad arrivare per vedere questo aspetto: bisogna partire da qui per costruire un’autoidentificazione culturale forte. L’amministrazione non può farlo per imperio…
Una cosa che si potrebbe fare è mettere a sistema l’idea di passeggiata letteraria, che già si fanno, ma solo sui luoghi del Manzoni: il Comune potrebbe organizzare questo tipo di passeggiata rivolta ad altri grandi personaggi della cultura.
Questa è una buona proposta da portare in assessorato. Comunque, sempre su questo tema, oggi stavamo facendo una discussione molto vivace per la valorizzazione della città riguardo il Teatro Burri. Burri è un artista molto importante, con cui Milano ha avuto da sempre un rapporto conflittuale. Ora si vuole rimettere in Parco Sempione il Teatro Burri, un palco a disposizione della cittadinanza. Questo palco all’aperto riflette l’idea di Burri di Teatro come Mondo.
Però i cittadini non lo vogliono, perché pensano possa rovinare il parco. Anche qui sta la pluralità, che porta spesso a conflitti. E la cultura spesso entra in conflitto con vari aspetti. In particolare è evidente il conflitto cultura-lavoro: un esempio può essere il barista che si lamenta del chitarrista che sta davanti al suo bar a suonare. Idem per il Teatro Burri: ci sono gli ambientalisti che mettono in conflitto ambiente e cultura.
Per gestire questi conflitti bisogna fare in modo che la nostra città si riconosca di più come città culturale.
Ovviamente un’amministrazione non può imporre un’idea, ma può fare in modo che esista un terreno fertile perché si faccia cultura.
Esattamente. Un esempio di come sia difficile risolvere questa situazione è il conflitto infinito sul festival internazionale di musica al Monte Stella. I cittadini sono in rivolta perché non vogliono né inquinamento acustico, né gente che s’ammassa e sporca.
Insomma, a Milano la logica diffusa è quella di cultura come orpello. La concezione comune milanese di cultura, infatti, si basa sul fatto che cultura e aggregazione sono cose diverse: cultura è leggersi un libro o andare al museo, nient’altro. A mio avviso, invece, cultura senza aggregazione non è cultura.
A questo proposito la poesia a Milano ha come tempio La Casa della Poesia, dove organizzano eventi i più grandi poeti viventi. Eppure, nonostante questo, quello è un luogo dove, se manca qualcosa, è proprio l’aggregazione: non c’è mai un pubblico folto. La cultura è vista come operazione singola e non di aggregazione, o comunque di élite. Alla base di ciò c’è una forte mancanza, soprattutto amministrativa, che ha sempre svalutato la cultura. Detto questo, come mai c’è questo forte distacco tra politica e cultura?
Per un motivo semplice: la politica da sempre ha la logica delle priorità. Il che è mortifero. E la priorità per eccellenza è il tema economico. Si mette come unica priorità il lavoro, lo sviluppo economico e così via… tutti temi importanti, sia chiaro. Il problema nasce quando la politica non può occuparsi del resto, perché altrimenti le si imputa di occuparsi di questioni inutili.
Quando Tremonti dice “con la cultura non si mangia”, per giustificare il taglio ai fondi della cultura in favore di interventi di sostegno, dice una cosa che è propria della politica di oggi. Sempre in questo senso essa non si occupa di diritti civili perché le priorità sono altre. Ecco, questa è una logica sbagliata. A furia di priorità tagliamo fuori dalla politica delle parti in realtà maggioritarie della cittadinanza: non occupandomi di cultura, di diritti civili, di arte di strada, non mi occupo di una grossa fetta del mio elettorato. Infatti non esiste più una sola categoria di cittadino a cui rivolgersi: il cittadino nella sua singolarità ha molteplici esigenze, dalla cultura ai diritti civili, e la politica non deve rispondere a una sola di queste, ma deve considerare soprattutto la complessità della società.
Infatti il grande astensionismo è anche dovuto al fatto che la politica non agisce più in prospettiva. Il comune secondo te sta facendo qualcosa, sta cambiando registro?
Sì, secondo me sì. Quello che ti ho raccontato prima lo dimostra, perché sono atti concreti. Inoltre abbiamo iniziato una discussione nella città sulla cultura. Un esempio su tutti: a Milano si è tornati a discutere della Pietà Rondanini, che Milano ha riscoperto. Il lavoro di discussione su temi tralasciati da tanti anni significa soprattutto che stiamo lavorando bene.
Un’amministrazione si misura sui risultati e i risultati si vedono.
Ora una domanda più politica. Come ti trovi col PD?
Il PD Milanese non c’entra niente col PD Renziano, che è autoritario, caratterizzato da uno spostamento a destra e da un’accettazione dei dogmi neoliberisti.
A Milano il PD è diverso: è fatto di dialogo, confronto. Il lavoro di collaborazione con un sindaco che non è propriamente del PD lo dimostra. Alcuni, minoritari per ora, vogliono riprodurre un processo di autosufficienza del PD, come sta facendo Renzi. Il che consiste non tanto in un’alleanza coll’NCD, ma nel diventare partito autonomo. Per ora l’unico modo per arrivare a questo è proporre un’alleanza con l’NCD. Ovviamente se c’è l’NCD non ci siamo noi di SEL. Se si vuole continuare sulla strada intrapresa insieme a Pisapia noi ci siamo, altrimenti no.
Renzi, in un’intervista a L’Espresso ha dichiarato che Vendola è un politico della rabbia, mettendolo insieme a Salvini… Eppure Vendola è tra i primi a parlare di cultura e gentilezza, così Pisapia. È seguendo questa strada che si sono visti i primi successi per la sinistra, in Puglia con Vendola, a Milano con Pisapia. Quando la finirà il PD di farsi del male?
Il PD secondo me sta vivendo del riflesso di una tornata elettorale, quella delle Europee, una tornata anomala. L’arroganza del PD deriva da quel 40%, dettato da alcune cose che ora non sono riproducibili, quali la paura di Grillo.
Renzi nasce dalla violenza della rottamazione, un concetto molto violento. Inoltre quotidianamente riproduce quelli che in politica si chiamano rapporti di forza. Se non è violenza politica questa che cos’è?
Ora il PD sta mostrando un’arroganza per un risultato che probabilmente verrà ridimensionato alla prossima tornata elettorale, nonché quando si ricomincerà a parlare di contenuti e non di forma.
Una volta il PCI era soprattutto accentratore culturale. Gli stessi iscritti al partito erano anche personalità di cultura, come Montale e Pasolini. Oggi non è più così. Oggi sono i giornalisti a entrare in politica (e questo lascia da pensare su quanto sia oggettiva l’informazione in Italia). Perché la politica non ha più cultura al suo interno?
Penso che il punto sia strutturale: tra il ’48 e il ’90 in tutto l’Occidente c’era il fenomeno che tu dici. Perché ai tempi c’era un grande un conflitto d’idee: da una parte c’erano i socialisti, dall’altra i liberali.
Nello scontro d’idee ci si identifica. Oggi il problema sta nel fatto che si fa fatica a vedere uno scontro d’idee: sui contenuti sfido chiunque a trovarmi differenze rispetto al governo Berlusconi. Del resto nei contenuti è difficile vedere una qualsiasi differenza tra le politiche del centrosinistra in generale rispetto al centrodestra.
Quando non hai una chiarezza dal punto di vista concettuale non è solo la cultura che non si identifica con la politica, bensì tutti non si identificano più con la politica. Quindi non si ha più un soggetto politico di rappresentanza. E questa è una debolezza.
E l’ideologia?
L’ideologia è la struttura organizzata d’idee ed è pregiudizievole in sé: dal momento in cui aderisco a un partito, accetto anche un sistema di idee, sì, però io preferisco parlare di sistema valoriale. Ciò che tiene insieme un partito dev’essere un sistema valoriale, in cui si possono avere idee differenti, ma con dei valori alla base comuni. Solo così si genera confronto.
Rimane importante avere un’idea…
Esatto, ma partendo da un sistema valoriale.
Ultima domanda, per te che cos’è cultura?
Per me è ciò che mi fa crescere, è la capacità di un essere umano di creare qualcosa che mi ingeneri un’emozione.
Copertina – Foto dell’autrice