Recentemente, la casa di moda Dolce&Gabbana è stata travolta dallo scandalo legato alle dichiarazioni che i due stilisti hanno rilasciato a «Panorama». La cronaca ne ha parlato animatamente, sottolineando l’affermazione di Dolce circa la propria diffidenza nei confronti dei “figli della chimica” – un chiaro riferimento ai nati dalla fecondazione eterologa.
Il web ha tuonato non poco in merito alla faccenda: numerosi i commenti non solo dal mondo dello spettacolo, ma anche da quelle migliaia e migliaia di utenti che non hanno resistito all’idea di allinearsi o meno all’hashtag promosso in particolare da Elthon Jhon, #boycottDolceGabbana
Il tutto si spiega pensando che il cantante, omosessuale e sposato con il compagno da alcuni anni, è felicemente padre proprio grazie alla pratica di cui sopra. Per farla breve, Elton John e tanti altri hanno invitato sia a gettare sia a non acquistare più abiti della nota catena italiana – proposito, questo, che nei fatti non è stato mantenuto nemmeno dall’artista stesso.
Se chi parla non sa di cosa si tratti
Si tratta di una situazione su cui vale la pena riflettere. In internet si possono trovare molte considerazioni in merito, la maggior parte improntate da uno stile deciso, convinto e determinato. E questo sorprende molto: non tanto perché si percepisce una spaccatura precisa tra chi si dice a favore e chi si dice contrario ai due stilisti, bensì per il fatto che tutti – o quasi – i commenti siano stati scritti senza aver gettato il minimo sguardo sull’intervista al centro della bufera.
Sembra ridicolo: quasi nessuno ha letto l’intervista e nemmeno si è informato. Tanto per cambiare, le persone si sono espresse su qualcosa che non conoscono, per quanto possa essere reperibile da infiniti canali. L’utente medio di internet è stato guidato dal sentito dire, dai titoli sensazionalistici di qualche giornale di parte e dall’opinione di questo o di quel politico che non ha esitato a strumentalizzare la faccenda.
È importante chiarire che l’autore di questo articolo non ha interesse a difendere la reputazione di qualcuno: non ci si è preoccupati, in altre parole, di sostenere che Dolce sia o meno un individuo disgustoso. Questo articolo è stato scritto per il semplice desiderio di far notare con quanta superficialità, leggerezza e disattenzione sia stato puntato il dito contro un essere umano.
Trattasi di un gesto banale, ma ripetuto quotidianamente, mentre sarebbe buona cosa approfondire, agire mossi da un pieno senso critico, domandare, se possibile, chiarimenti alle persone coinvolte e, soprattutto, argomentare. Pertanto, si approfitta di questo specifico episodio per denunciare una tendenza più che diffusa.
La dichiarazione di Dolce
“Non c’è religione, non c’è stato sociale che tenga: tu nasci e hai un padre e una madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che io chiamo i figli della chimica, i bambini sintetici. […] Io sono gay, non posso avere figli.”
Nella medesima intervista, si ritrovano due elementi che distinti sono e distinti devono rimanere:
- il tema dell’omogenitorialità
- il tema della maternità surrogata – argomento, questo, che prescinde dall’orientamento sessuale.
Nel calderone della polemica, tali elementi si sono mescolati e sovrapposti, partorendo un ibrido ben lontano dalla realtà dei fatti. Pertanto, si tenga bene a mente questa distinzione, perché su di essa si fonda l’analisi dei punti in cui questa faccenda merita di essere articolata: per quanto sia possibile leggere l’episodio sul livello del semplice gossip, vale la pena sottolinearvi le sfaccettature che possono disegnare il quadro completo di un evento che ha scosso il movimento LGBT. Un evento di fronte a cui, per l’ennesima volta, la maggioranza ha dispensato sentenze gratuite e infinitamente superficiali.
Punto primo: diamo un volto a quest’uomo
Abbiamo giudicato qualcuno a causa delle sue affermazioni, ma senza chiederci chi effettivamente questo qualcuno fosse. È ricco? Famoso? È di successo? Ha girato il mondo? Ma che importa?
Prima di ogni cosa, è un essere umano: che parli per mero tornaconto o che parli con sincerità, ogni frase che esce dalla sua bocca ha senso solo alla luce delle esperienze vissute.
Con ciò non si vuole sostenere che ogni assurdità possa essere tollerata, bensì che può essere compresa: sappiamo bene quanti adolescenti dei giorni nostri facciano fatica ad accettare sia la propria omosessualità sia le implicazioni sociali di questa, in termini di famiglia, diritti, etc; figurarsi quale possa essere la visione del mondo di chi arriva da ben altra generazione.
Nel nostro caso, parliamo di Dolce, un uomo di quasi 60 anni, originario di una famiglia meridionale; per quanto possa aver viaggiato o aver avuto successo, è comunque figlio di una cultura probabilmente rurale e di un momento storico differente. Per la cronaca, non si dica che esistono persone meridionali, anche più anziane, con pensieri differenti: ognuno è un individuo a sé stante.
Punto secondo: la reale posizione dello stilista
Come è già stato riportato poco sopra, Dolce si è detto contrario sia all’omogenitorialità sia alla maternità surrogata.
Probabilmente è un errore leggere, come in tanti hanno fatto, tale contrarietà in termini di bianco o nero, ovvero di piena approvazione o di assoluta condanna: una persona può opporsi a un’idea in un’infinità di modi differenti. Pertanto, così come si può rigettare senza mezzi termini la dignità umana di un bambino nato in provetta – e questo è sbagliato –, è altrettanto possibile legare il tema della maternità surrogata a un “io non lo farei, ma il mondo è vario“. Una posizione più moderata, insomma.
È plausibile che Dolce intendesse questo. Come il suo socio ha chiarito successivamente, mai e poi mai si sarebbe sognato di considerare di SERIE B i “figli della chimica”.
Ma, se queste sono le sue reali intenzioni, per quale motivo ha usato un nomignolo tanto triste e sgarbato qual è “figli della chimica”? Alla luce di tutte le sue dichiarazioni, anche immediatamente seguenti alla diffusione dell’intervista, si può presumere che l’accezione negativa fosse rivolta alla pratica, non ai bambini; è un triste gioco retorico da cui non si è salvaguardato. Ma – non lo si dimentichi – ha messo le mani avanti sin da subito, cercando di chiarirsi già dai primi rumours.
Punto terzo: la gravità delle sue dichiarazioni
Parte della comunità omosessuale ha sostenuto il proprio ribrezzo di fronte alle parole dello stilista per il fatto che Dolce, insieme a Gabbana, sia una figura molto rappresentativa in Italia e nel mondo: le sue dichiarazioni rischiano di nutrire le forze di chi si oppone al riconoscimento dei diritti civili, sempre pronte a strumentalizzare simili faccende.
Ma quanto possiamo fondare il nostro sdegno su questo aspetto?
Sebbene sia immediato associare alla figura di Dolce una certa notorietà, è anche vero che egli ha parlato a nome di se stesso e di nessun altro. In altre parole, è stato il pubblico ad attribuire a Dolce un ruolo, leggendo l’intervista. Pertanto, lui non può essere considerato responsabile di un’attribuzione che è svincolata dalle sue specifiche dichiarazioni, poiché questa attribuzione deriva da terzi.
Possiamo dire che lo sapeva benissimo, che poteva aspettarselo, ma sulla carta non c’è nulla di tutto questo. Sono solo nostre ipotesi. Sulla carta ci sono solo le sue parole.
Punto quarto: il senso del boicottaggio
Ogni qualvolta che il movimento LGBT propone un boicottaggio, è inevitabile ricordare la vicenda che tempo fa aveva toccato la Barilla. All’epoca, in molti si erano uniti all’iniziativa, in attesa che venissero seriamente ritrattate le parole di pessimo gusto dell’omonimo dirigente.
Tuttavia, non è possibile negare che l’episodio di quest’ultima azienda non sia del tutto sovrapponibile alla vicenda dei due stilisti: mentre Guido Barilla aveva espressamente associato il proprio prodotto a una posizione omofoba (“Se ai gay non piace la mia pasta o la mia comunicazione, che comprino un’altra pasta”), qui, invece, l’operazione non è stata fatta.
Mai e poi mai Dolce ha associato il marchio D&G a quanto ha detto, sbagliato o giusto che sia: ha tenuto separati, insomma, lavoro e realtà personale.
Se associare il prodotto di un’impresa all’idea del suo dirigente è davvero un’operazione automatica, imprescindibile e necessaria, per coerenza sarebbe buona cosa se tutti coloro che aderiscono al boicottaggio fossero altrettanto scrupolosi la prossima volta che andranno dal salumiere, al supermercato, in farmacia o dal fruttivendolo.
E non si dica che l’opinione del fruttivendolo non ha la stessa risonanza di quella di uno stilista di fama mondiale: se crediamo nella militanza LGBT, dovremmo ben sapere che è anche di quel fruttivendolo che ci stiamo occupando con il nostro attivismo e che nessuno vale meno di nessun altro.
Buona fortuna.