di Isabella Poretti
La globalizzazione ci ha connessi con tutto il mondo, rendendoci interdipendenti, sempre in contatto, in continua mescolanza ed evoluzione. Il settore della moda non è certo rimasto immune da ciò. Le strade delle nostre città sfoggiano nelle loro vetrine abiti uguali da un negozio all’altro, standardizzati, seriali, senz’anima. Le grandi multinazionali della moda (come Zara, H&M, etc.) hanno imposto al mondo intero, attraverso i loro prezzi invitanti e la loro vastissima scelta, uno stile unitario a scapito degli abiti della tradizione culturale dei diversi paesi del mondo.
Quante volte ci capita di uscire per strada e vedere qualcuno che indossa la nostra stessa maglietta? O che indossa i nostri stessi colori? Non è sicuramente un caso. Il nostro bisogno di sentirci inseriti nel XXI secolo, di partecipare allo spirito di questa nostra epoca e di far parte della società padroneggiandone gli usi e la cultura, ci mette in continua tensione verso l’omologazione. Il piacere di perdersi tra la folla, la tranquillità dell’anonimato. Viviamo in un’epoca dove il processo di autenticazione culturale (tanto studiato dagli antropologi della moda) inghiotte con voracità tutto ciò che trova sul suo cammino, cucendo addosso a ciascuna tradizione elementi provenienti da realtà estranee.
Ma nel pastiche della moda degli ultimi anni, alcuni stilisti si sono fatti strada in difesa della specialità etnica, tornando a colorare la terra di tutte le sue tradizioni e identità culturali. In tutto il mondo si sono sviluppati moltissimi progetti improntati sulla cosiddetta “Fashion with Roots” (moda con radici), volta a conservare i tessuti e gli abiti tipici di alcune popolazioni.
Katharina Koppenwallner, stilista berlinese, è la fautrice di “International Wardrobe”, uno dei progetti inglobati in questo particolarissimo genere di moda: quest’ultima, viaggia perennemente per i luoghi più remoti del pianeta alla ricerca di costumi, tessuti locali, accessori folk, li fotografa nei loro contesti originali spiegandone la provenienza e la storia, e li vende sul suo sito.
I veri iniziatori della moda etnica, tuttavia, sono stati Humberto Leon e Carol Lim, quando dieci anni fa aprirono la loro prima piccolissima boutique a New York (Opening Ceremony). L’idea dei due stilisti è quella di proporre ogni anno capi rarissimi di un paese sempre diverso nella loro collezione. Il progetto ha avuto tanto successo da far aprire altri negozi di questo originalissimo marchio a Los Angeles e Tokyo.
La febbre della moda etnica ha contagiato velocemente anche le star e i personaggi più in vista della nostra società: Michelle Obama, ad esempio, è annoverata tra le clienti dei negozi Suno, dell’americano keniota d’adozione Max Osterweis. Lo stilista da due anni vende nella sua boutique a New York abiti tradizionali Kenga, realizzati con stoffe tradizionali del Kenya e delle regioni limitrofe del Nord Africa.
La moda delle radici ci fa specchiare nelle nostre origini, invitandoci a riacquistare la nostra identità anche agli occhi del resto del mondo attraverso la cosa che più ci connota quando camminiamo per la strada: i vestiti. L’ente che esorcizza l’omologazione, colori, forme e tradizioni che colorano di splendide e curiose varietà le nostre tristi metropoli pulsanti di grigio conformismo.
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