di Andrea Piazza
Di ritorno dal mio amico, riprendo autobus e poi metro.
Questa volta mi siedo, per osservare da lì, comodo, in posizione di controllo.
È una città senza stelle. Milano dico. Non si possono vedere da nessuna parte. Le luci, la confusione, i tetti altissimi oscurano e offuscano tutto, non c’è mai nitidezza e limpidezza nel cielo.
Un po’ come nei pensieri di tutti. Gli abitanti, ovunque essi siano, ma non soltanto.
Una città senza stelle non può esistere, è una città fantasma. Io vorrei solo alzare gli occhi al cielo per vederle, ogni tanto. Non è chiedere molto.
Soprattutto Sirio. È stupenda. E orma l’ho associata ad una certa cosa, un pensiero stupendo che accompagna le mie veglie in montagna, quando mi affaccio dalla mansarda e le stelle le vedo davvero e Sirio e là e basta un attimo perché..
-Lei passa spesso di qui.
Un uomo, sulla sessantina, semicalvo. Per di più indescrivibile. Un incrocio, si direbbe, tra un clochard e un nobile signore in decadenza. Una giacca lisa e rattoppata. Un occhio leggermente più grande dell’altro – per un attimo non riesco a pensare ad altro.
-Scusi?
-Lei passa spesso di qui, dicevo. Sbaglio?
Allibito.
-Ma chi è lei?
-Io?
-Sì, lei.
-Uno scrutatore di volti.
-Ah.
Silenzio.
Cosa avreste detto voi? Facile con il senno di poi star lì a giudicare.
Pausa di nuovo.
La scena riprende. Su il sipario.
-E tu?
-Io?
-Sì, tu.
-Io cosa?
-Tu chi sei?
-Io sono…mmm nulla di particolare.
Potevo dire il mio nome, ma non so perché quella conversazione era già partita in modo assurdo…
-Ah, interessante, molto interessante. Tutti sono qualcosa di particolare, non trovi ragazzo?…
Ah certo, la fiera delle banalità. Per un attimo me n’ero scordato.
-Lo so che pensi, non è una cosa così banale in realtà…e lo dimostra il fatto che tu ancora non l’hai capita, mi pare.
Si girò di scatto a fissarmi. Uno sguardo diretto, penetrante. Lo sguardo quasi di un folle, ma lucidissimo.
Avevo la netta sensazione che avrei creduto a qualunque cosa avesse detto. Volevo che conducesse lui la conversazione…solo quello. Non sapevo cosa diavolo dire.
-Insomma, non è una banalità. Sai, io ci vedo chiaro, in queste cose, ragazzo…
-Dai retta a me – aggiunse con un mezzo sorriso sulle labbra.
Ancora non sapevo che dire.
-Fai conto, ti ho visto stamattina…eri vicino ad un ragazzo algerino o egiziano, non so bene. Ecco, si vedeva che lo fissavi…e comunque, anche bene direi.
-Bene?
Da dove accidenti mi era uscirò quel bene?
-Sì, certo, dai retta a me ragazzo. Te ci vedevi bene proprio…quel ragazzo, lì, il lavoro non ce l’ha, la famiglia sì. È qui da tre anni, due figli, tanti problemi, qualche debito di gioco. È un tipo a posto, questo è sicuro –
E come le sa tutte queste cose?
– E come le sa tutte queste cose?… – feci io.
– Perché scruto i volti, ragazzo, te l’ho detto…
-Lei fa questo quando viene in metro?
-Intendi dire come fai tu, ragazzo?
-Beh, sì, in un certo senso..
-Una volta ragazzo, una volta.
E…?
-E ora?
-E ora nulla.
-Come nulla?
-Nulla di tutto questo. Ora è il mio mestiere.
Silenzio.
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> Lo scrutatore di volti – parte IV
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