di Isabella Poretti
La gonna: da sempre indumento simbolo di femminilità, eleganza, identità. Il rovescio della medaglia però, spesso, ci mostra come questo capo sia associato alla prigionia sociale della donna, alla sua segregazione in un ruolo giudicato da molte culture inferiore rispetto a quello dell’uomo.
La gonna a seconda delle epoche, della sua lunghezza, della persona che la indossa e del paese in cui viene indossata ci può dire molto sulla donna, sulla sua posizione nella società, sulla sua personalità, sul modo in cui viene considerata.
Oggi, nel 2015, una ragazza che indossa questo indumento è ritenuta da uomini ignoranti e maschilisti colpevole e responsabile quando subisce una violenza.
Lo scorso 11 febbraio una studentessa turca di 20 anni, Özgecan Aslan, è stata rapita e uccisa a Mersin, nell’Anatolia meridionale, dal conducente di un minibus. Dopo aver cercato di difendersi con una bomboletta spray al peperoncino, la ragazza è stata accoltellata, picchiata e bruciata. Il suo corpo è stato gettato in un fiume e ritrovato due giorni dopo. Per culture come queste, in parte influenzate dall’islam e dall’idea di superiorità maschile, è più facile essere terreno fertile di episodi di questo tipo che purtroppo si moltiplicano vertiginosamente.
Ma questa volta è avvenuto qualcosa di diverso.
In tutto il Paese si sono riunite migliaia di donne organizzando proteste e cortei per mostrare il proprio dissenso e reagire a questo orrore. E non è finita qui: la sorpresa più grande è stata vedere molti giovani uomini turchi sostenere e sfilare al fianco delle donne durante le manifestazioni indossando perfino una minigonna, in segno di solidarietà, e condividendo loro foto sui social network con l’hashtag #ozgecanicinminietekgiy (“indossa una minigonna per Özgecan”).
La campagna, che ebbe inizio in Azerbaigian, riportava lo slogan «Se una minigonna è responsabile di tutto questo, se indossare una minigonna significa immoralità e impudicizia, se una donna che indossa una minigonna è un invito alla violenza, allora stuprate anche noi». Da qui l’idea degli uomini di sfilare in minigonna, da qui l’idea di questo gesto ironico e provocatorio per mostrare solidarietà al genere femminile.
L’inizio di una guerra contro i fondamentalismi, contro la segregazione di genere, una guerra per l’emancipazione femminile, che tuttavia sembra ancora lontana per i Paesi del Medio Oriente.
Le tensioni in queste zone del mondo sono sotto i nostri occhi ogni giorno, le aree adiacenti alla Turchia, fortemente radicate nell’estremismo islamico (ben diverso dal vero credo musulmano che non predica la violenza), ci fanno paura, la guerra imminente ci fa paura e ci turba profondamente. E una minuscola scintilla di questo terribile fondamentalismo è possibile vederla anche nell’episodio avvenuto in Anatolia lo scorso 11 febbraio: certamente qui non abbiamo parlato di rapimenti né di questioni politiche, ma l’odio, le interpretazioni sbagliate e la chiusura dilagante nei confronti delle donne non sono poi così sconnesse dagli episodi di estremismo che compaiono puntuali sulle nostre televisioni. Donne schiave dell’oppressione dell’uomo in nome della religione, nate per subire senza saperlo, non avendo mai conosciuto nulla di diverso.
Tuttavia, ora ci sono chiari segni di aperto sostegno anche da parte della componente maschile turca, specialmente i giovani: questo conferisce molte speranze al futuro di questo Paese e delle donne. I giovani turchi in minigonna ci hanno dato una grande lezione di solidarietà trasformando un indumento, reso simbolo della colpa, della provocazione, della diversità e della sottomissione, in simbolo di protesta, forza, emancipazione e libertà. Una gonna non solo per combattere l’oppressione della donna, ma anche per dire “io non ho paura” davanti a uno degli aspetti più condannati di questa cultura.
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