di Federica Tosadori
Cammino per le vie di una città.
Conosco questo posto, anche se non ci sono mai stato.
Passeggio stanco di fianco a un parco e intravedo oltre la recinzione un uomo che distribuisce – tra i ragazzini che giocano – delle foto che lo ritraggono, come biglietti da visita.
Sta facendo propaganda a se stesso. So chi è.
Io continuo a camminare verso la piazza centrale e sento che lui cammina dietro di me e ho paura, anche se so che non può farmi niente.
Sono ancora in un tempo e in un luogo sicuro.
La piazza è sul mare e al suo centro ci sono delle strane sculture: si tratta di strutture in ferro con delle foto appese; ritraggono persone i cui volti sono stati tagliati via, così ora non sono altro che foto bucate di persone senza faccia.
C’è anche una ragazza su un piedistallo che canta in playback una canzone.
So per certo che è stata lei a scriverla, ma che qualcuno l’ha modificata: non ne è contenta.
La canzone è tremendamente triste e io di nascosto comincio a piangere.
Mi accorgo che accanto a me c’è un mio caro amico; anche lui ascolta la canzone.
Mi vede, che sto piangendo.
Mi chiede che cosa ci sia che non va.
“Sai dove siamo? Sai chi è quell’uomo che distribuisce volantini? Sta per cominciare la guerra, lo sappiamo e non possiamo fare niente per impedirlo.”
Tristemente non risponde.
Io sono solo disperato e impotente.
Apro gli occhi. Inevitabilmente tento di alzarmi, ma subito dopo sopraggiunge consapevole il ricordo: non posso farlo. Sono legato a questo letto, oramai ho perso il conto dei giorni. Ogni mattina mi sforzo di darmi un tempo, di ricondurmi a qualcosa di reale, uno spazio, un luogo, un giorno sul calendario. Ma non ci riesco mai a salvarmi. Salvarmi dal vuoto in cui sono stato lasciato a esistere. Sogno costantemente, tutte le notti, tutte le notti quel sogno. Città, uomo, piazza, mare, monumento, musica triste, lacrime, quel mio caro amico, la ragazza. La ragazza. Tutte le notti mi canta nella testa, quella sue parole in playback, nel cervello, in quel luogo dove si costruiscono i sogni. Ci ho pensato spesso – pare io non abbia altro da fare se non questo – al luogo in cui si sogna. Mi sono reso conto che è tutto su, sopra il corpo, lontano dai piedi, dalle ginocchia, dal ventre, dal petto, dal cuore, dalle guance, sopra oltre gli occhi, dietro di loro, nella parte più alta della mente; lì, come a voler scappare via, si formano le immagini dei sogni, che spingono contro le pareti del cranio, contro le pareti del nostro intelletto. Spingono per uscire, diventare veri, come tutto il resto delle cose che viviamo, come se non fossero soddisfatti del nostro considerarli veri solo per brevi momenti, nello spazio di parentesi fumose. Quella ragazza mi guarda dritto negli occhi, da dietro i miei occhi. Da dentro di me, mi guarda fuori, e da dentro di me vorrebbe uscire, vorrebbe che io la facessi uscire, la facessi smettere di cantare per finta, quella sua canzone che non è più sua, quella melodia triste, liberata in una piazza sul mare, di una città apparentemente sicura, quasi in guerra. Da quel suo piedistallo mi perseguita tutto il giorno: pare che ci stia riuscendo a spingersi fuori, a diventare vera.
Intorno alle 12.00 mi portano del cibo. Ovviamente le 12.00 sono un orario fittizio. Decido io che quel momento sono le 12.00. Dodici ore da un dato momento a ora. Mezzogiorno, come se la vera metà di una giornata non fosse il passaggio da giorno a notte. Quella è la metà, la metà delle ventiquattro ore con cui abbiamo deciso di codificare il nostro tempo. Dal reale all’immaginario. Alle 12.00 mi liberano mani e piedi. Io mi alzo e sgranchisco quello che rimane di me. Mangio in piedi, come per ricordarmi come si fa a reggersi su quella instabile base. Non ho piedistalli sotto di me, ma continuo a pensare a quello d’oro su cui la ragazza mi canta dentro ogni notte, alle 12.00, a mezzanotte. I sogni scappano verso l’alto e si formano lì, lontano dai piedi. Provo a immaginare come sarei se fossi fatto solo di quel luogo nell’alto della testa dove si formano i sogni: non starei in piedi, mai. Ma per fortuna sono ancora in grado di reggermi, nonostante tutto il peso dei miei pensieri in alto.
Per un po’ mi muovo nella stanza. Non c’è molto qui: un tavolo bianco, il letto, una grande finestra dalle tende bianche, sulla parete opposta di quella dove si trova la porta. Dalla finestra non posso vedere niente, solo nebbia, che a volte pare fumo di bombe, polvere di macerie, oppure nuvole basse, molto basse. Mi capita di scoprirmi – nelle divagazioni del mio pensare – sicuro nella convinzione che in fondo fuori non esiste. Che fuori sia la fine, il dopo del mondo, e che dentro io non sia che un’essenza, un ricordo di qualcosa che sono stato, una persona, ma potrei benissimo essere stato una stella marina, una zecca, una rosa, o quell’uomo che distribuisce volantini; non riesco ad andarmene perché ho una colpa da smaltire, che non potrò mai risolvere. Sono un personaggio irrisolto, come quelli di certi romanzi, di certe tragedie, di certe vite passate tra le parole. Sulla scrivania c’è una palla di vetro, di quelle con un piccolo mondo dentro, e dell’acqua, e dei sassolini bianchi come neve. Non capisco davvero come mai sia qui. Mi sembra di stare nella stanza di una bambina, come se nella fretta di scappare per lo scoppio della guerra avesse irrimediabilmente dimenticato qui quella palla di vetro. Non credo l’abbia fatto apposta. Non mi pare trattenga in sé la malinconica magia degli oggetti abbandonati. Sembra sorridere in realtà. È una palla di vetro che sorride. Che assurdità.
Quando mi rilegano nel letto di nuovo consapevole sopraggiunge il ricordo: sono un ostaggio. Un prigioniero. Non so cosa si aspettano di ottenere. Un riscatto? Osservo la palla come se fosse il vero fuori. Vorrei alzarmi e buttarla dalla finestra. “È lì che devi stare”, urlerei. So che verrebbe inghiottita dalla nebbia, dallo smog, dalle polveri sottili, dal cotone che mi hanno costruito attorno. E finirebbe chissà dove a mostrare finalmente quello che è sempre stato il suo potenziale fascino di malinconico oggetto abbandonato. Ma ora sono legato. Potrei farlo domani, ma so che non lo farò. Lo so nello stesso modo in cui si sanno le cose nei sogni: mentre sei lì e le vivi, qualcuno ti suggerisce all’orecchio, come a srotolarlo, tutto ciò che è stato prima, che è e che verrà dopo. Come se il tempo fosse tutto lì davanti, anche se ne stai vivendo solo un pezzettino. Nel mio sogno so dove sono, so chi c’è intorno a me, tutto è ovvio, sicuro e pericoloso insieme. L’atmosfera promette cose terribili, e quelle foto inquietanti di volti senza volto… come mille, milioni di miliardi di persone che smetteranno o hanno già smesso di essere persone. Non sono nemmeno solo, ho un amico con me e con me percepisce tutta la tristezza palpabile dell’aria. So tutto nel sogno, non so niente nella vita. Non posso ricordare se si tratta del mio passato o del mio futuro. Non posso ricordare il futuro come tra quelle ombre del mio sogno, che spingono per uscire dal cervello. E quella ragazza. Quella ragazza senza legame con niente altro se non con i miei occhi. La rapirei come hanno fatto con me e la rinchiuderei in una palla di vetro solo per guardarla, tra i sassolini bianchi, lei e quei suoi occhi azzurri senza pupille. E penserei ogni giorno, alle 12.00 o nella sua metà, che vorrei scagliarla fuori dalla finestra e abbandonarla, e renderla magica. La allontanerei da quella guerra che sta per cominciare e che io non so come fare a fermare. Sono di nuovo nel sogno. Cammino verso la ragazza e la sua canzone. Senza pupille la cerco, senza pupille la trovo e so tutto, come tutto si sa nei sogni, tranne se sia io a doverla salvare o lei a salvare me, dalla guerra che tutti stiamo aspettando.