La retorica di Ungaretti da una lezione di Fausto Curi

di Davide Paone

Questo articolo si fonda su una lezione tenuta dal professor Fausto Curi il 25 febbraio presso l’Università di Bologna. Le raccolte prese in considerazione sono Il porto sepolto (1917) e Sentimento del tempo (1933) e sì, l’argomento sembra la solfa liceale che tutti bene o male ci siamo sorbiti (lungi dal voler sminuire il genio di Ungaretti, sia chiaro), ma ad allontanare questa paura basti riportare il titolo dell’intervento di Curi: Eros e retorica di Ungaretti.

La lezione

La scelta delle poesie si impernia sulla convinzione che non fosse tanto la fede religiosa (che pure fu autentica in Ungaretti), quanto l’eros ad accendere i suoi versi; egli riuscì a imprimere alla poesia italiana del Novecento una libertà retorica, una svolta, un passo nuovo e un nuovo vigore; retaggi delle recenti poetiche di Baudelaire e di Rimbaud. Questa poesia post-baudelaireiana e post-rimbaudiana consente a Ungaretti di superare quegli atteggiamenti culturali che in Italia ancora imponevano limiti forti alla parola e alla retorica. A Ungaretti sarà quindi possibile senza scandalo, ma con un notevole acume poetico, una divaricazione estrema tra elemento metaforizzante ed elemento metaforizzato.

La retorica

Curi parte dalla base, tessendo passo passo il filo del discorso: la retorica, dice, è la disciplina (o tecnica) attraverso cui si parla o si scrive con efficacia, ossia con cui chi parla o scrive raggiunge i risultati che si era prefissato. Ne consegue che la retorica – per l’obbligatorietà di aver qualcosa da comunicare nel momento in cui ci si accinge ad aprire la bocca o sfoderare la penna – è onnipervasiva, il fantomatico “grado zero” della lingua non esiste. La retorica porta il linguaggio a costruirsi su una polisemia che a ben vedere è inevitabile: ogni elemento semantico di ogni frase potrebbe infatti contenere più significati. Gli strumenti della retorica (sotto questa luce più naturali di quanto potessimo immaginare) prendono emblematicamente il nome di tropi (dal gr. ‘luogo’, ‘movimento’).

Ultima premessa è recuperata dalle riflessioni di Jakobson che individua i due ambiti attorno a cui ruoto l’effetto retorico di un tropo: le figure per similarità (metafora) e le figure per contiguità (sineddoche e metonimia), che rappresentano rispettivamente una sostituzione e uno slittamento semantico.

Nel segno di una retorica intensamente modellata e posta al centro di un fitto lavorio stilistico, Ungaretti concentra nei versi innanzi tutto la propria visione del far poesia.

La poesia Commiato

Commiato (Locvizza, il 2 ottobre 1916)

Gentile

Ettore Serra

poesia

è il mondo l’umanità

la propria vita

fioriti dalla parola

la limpida meraviglia

di un delirante fermento

Quando trovo

in questo mio silenzio

una parola

scavata è nella mia vita

come un abisso

Commiato contiene negli ultimi versi la dichiarazione poetica di Ungaretti, ed è emblematico – nell’ottica di quell’infrazione dei limiti che abbiamo notato sopra – come il pensiero poetante parta dal silenzio come da un abisso (v. 13); altrettanto significativo, alla luce della concentrazione semantica che caratterizza la poesia di Ungaretti, è definire questo pensiero poetante come una parola (v. 11) immersa nel silenzio, affrancata in qualche modo dal tutto della poesia (v. 3). Si può scorgere una netta presa di distanza dalla poetica dannunziana concentrata sulla superficie estetica del linguaggio. Talmente intensa è la forza evocativa della retorica ungarettiana che la critica ha avanzato l’ipotesi di una vera e propria “poetica dell’abisso”.

Il sentimento religioso

Ungaretti, come accennavamo prima, è anche un poeta pervaso da una forte religiosità, proprio questa componente porta la critica a spaccarsi intorno al giudizio di alcuni dei suoi versi, segnatamente quelli che più rappresentano il “filone erotico” della sua poetica. L’errore di alcuni critici sta nel non rendersi conto di una possibile coesistenza tra sentimento religioso e tensione carnale ed erotica.

Da un punto di vista critico-stilistico questo gruppo di poesie racchiude in sé un coacervo di figure retoriche fortemente innovative – continuatrici del retaggio della poesia barocca –, contro cui si staglia la semplicità schietta e lineare delle poesie più religiose. Il primo esempio riportato dal professor Curi è una poesia del 1929, dalla seconda raccolta di Ungaretti.

Primo amore

Era una notte urbana,

Rosea e sulfurea era la poca luce

Dove, come da un muoversi dell’ombra,

Pareva salisse la forma.

Era una notte afosa

Quando improvvise vidi zanne viola

In un’ascella che fingeva pace.

Da quella notte nuova ed infelice

E dal fondo del mio sangue straniato

Schiavo loro mi fecero i segreti.

La poesia ruota attorno al senso della vista, ma si tratta di uno sguardo in bilico tra reale e figurale, tanto che pare formarsi in un’immagine via via più definita: la scarsa luce permette di scorgere la forma (v. 4) – non una qualsiasi, ma quella precisa forma – che emerge dal movimento dell’ombra. Nonostante la semplicità della descrizione, non può non saltare all’occhio la pregnanza espressiva delle parole e dei versi che costruiscono una trama narrativo-descrittiva e ritmica, preannuncio del clima simbolico attorno a cui ruota tutto il testo. L’anafora che apre la seconda strofa attiva il meccanismo di trasfigurazione retorica: si tratta ancora di una percezione visiva, dunque l’ascella (v. 7) è realmente vista dall’io poetico.

Bisogna soffermarsi a notare che il termine ascella è un hapax della poesia ungarettiana (e forse rispetto a tutta la poesia italiana), l’unicità della ricorrenze di un termine così anti-poetico deve farci drizzare le antenne. Naturalmente l’attivazione della trasfigurazione figurale avviene soprattutto nei termini chiave del testo, dunque dobbiamo chiederci: nell’ottica delle categorie proposte da Jakobson, ascella è da considerarsi una sineddoche (ossia indicante il corpo femminile) oppure una metafora (stante allora per il significato più “spinto” di vulva)? In relazione al contesto figurale è molto più plausibile la seconda ipotesi, anche perché il sintagma zanne viola rimanda alla conformazione, nonché al colore dell’organo genitale femminile.

Viene chiamato in causa il topos dell’amore in forma di pace (v. 7), ma allo stesso tempo viene smentito dal ribaltamento del predicato fingeva (v. 7). L’abilità retorica di Ungaretti sta tutta nell’empatia con la quale coinvolge il lettore, tessuta sulla sovrapposizione esperienziale tra l’io poetico e l’io leggente: quest’ultimo è messo nella condizione in cui la scena si materializza visivamente davanti agli occhi (prima strofa), dopodiché l’immersione retorico-simbolica amplifica l’effetto emotivo descrivendo l’atto carnale con tinte grottesche e inquietanti. Più che la metafora dell’ascella è la metonimia delle zanne (v. 6) a far presa sul lettore, figura che riceve una specificità anatomica e una maggiore carica espressiva dall’aggettivo coloristico viola (v. 6).

Si tratta palesemente di un’esperienza erotica vissuta in maniera negativa – lontanissima dalla concezione del sentimento amoroso nella poesia, ad esempio, dantesca e petrarchesca; esperienza che tra l’altro assume importanza maggiore dal titolo del componimento: è infatti raccontata il primo incontro con il mondo dell’amore carnale. Da questo punto di vista sul piano retorico è interessante anche notare l’esercizio di una doppia censura: la prima di ordine psichico (derivata dalla riflessione freudiana), la seconda di ordine estetico. Così l’atto sessuale non viene rappresentato ma solo alluso, e allo stesso modo il carattere aggressivo e negativo dell’esperienza non viene reso nella sua crudezza, ma con uno stile dolce, onirico, che soffoca l’inquietudine, senza neanche l’ombra di un esplicito riferimento sessuale.

La terza strofa è sintesi delle prime due: la notte appare nuova ed infelice (v. 8), il corpo della donna appare come qualcosa di aggressivo; sangue straniato (v. 9) è sineddoche per il corpo del poeta. L’assenza di pace estranea il soggetto a sé stesso, rendendolo schiavo del suo carnefice, l’amore. Riportando il testo alla realtà l’interpretazione si chiarifica tenendo in considerazione alcune riflessioni di Freud: lo psicanalista afferma che in alcuni nevrotici l’esperienza sessuale provoca un forte shock; non si vuole avanzare l’ipotesi che Ungaretti fosse nevrotico, ma semplicemente che l’esperienza descritta è assolutamente verosimile. Alla luce di tutto ciò, questo permette di riaffermare a ragion veduta che lo stimolo a un uso più marcato della retorica perviene a Ungaretti da due esigenze apparentemente opposte: enfatizzare un aspetto fondamentale della sua poesia, l’eros; auto-censurare lo scandalo della componente erotica.

La figura femminile

Dal confronto con altre liriche abbiamo l’impressione che il rapporto di Ungaretti con la figura femminile e con l’esperienza sessuale non sia mai stato un rapporto felice. La carnalità della poesia di Ungaretti si impernia proprio su questo rapporto, che echeggia, inoltre, proprio il suo dissidio tra eroticità e auto-censura (sia questa derivata dal sentimento religioso o da una pudicizia estetica).

Giunone (1931)

Tonda quel tanto che mi dà tormento,

La tua coscia distacca di sull’altra…

Dilati la tua furia un’acre notte!

Dove la brevità è maggiore, la concentrazione retorico-semantica esplode. Di nuovo è descritta un’esperienza erotica non lieta. Il distico iniziale è descrittivo dell’azione, l’endecasillabo finale non è più visione-immaginazione come in Primo amore, ma decisa esortazione. L’allitterazione della dentale sorda t ha un preciso intento retorico: conferisce un ritmo scandito e spigoloso che si contrappone all’immagine evocata dall’aggettivo Tonda (v. 1) riferito al corpo della donna. La contrapposizione è ribadita anche dalla figura finale acre notte (v. 3) che di nuovo è metaforizzante della vulva femminile: oltre a intensificare l’esortazione di chiusa, l’aggettivo acre – che costruisce anche una sinestesia con il sostantivo notte – racchiude in sé l’opposizione tra il desiderio del soggetto e la paura della tenebra notturna, resa anche fonicamente dallo screzio sonoro del nesso –cr-.

La morte meditata, Canto V (1932)

Hai chiuso gli occhi.

Nasce una notte

Piena di finte buche,

Di suoni morti

Come di sugheri

Di reti calate nell’acqua.

Le tue mani si fanno come un soffio

D’inviolabili lontananze

Inafferrabili come le idee,

E l’equivoco della luna

E il dondolio, dolcissimi,

Se vuoi posarmele sugli occhi,

Toccano l’anima.

Sei la donna che passa

Come una foglia

E lasci agli alberi un fuoco d’autunno.

Scompare la cupezza inqueta delle due poesie precedenti, ma una “lettura retorica” svela il persistere della componente erotica, fin dal primo verso che, isolato, è un invito rivolto alla figura femminile. Finte buche (v. 3) è metaforizzante degli orifizi femminili, infatti segue la descrizione censurata di un coito: suoni morti (v. 4), reti calate nell’acqua (v. 6). La trasfigurazione metaforica qui chiama in causa un panismo di lontana ispirazione dannunziana, coronato dal verso di chiusa e, più intensamente, dal sintagma fuoco d’autunno (v. 16), caricato di una rara forza evocativa; trasfigurazione che entra talmente a fondo nelle venature del testo da raggiungere il significato e attivare una metamorfosi della donna che rimanda al mito di Dafne e Apollo.

Il senso pratico (e forse un po’ semplicistico) della retorica è quello di condensare un messaggio più o meno lungo in un discorso quanto più breve possibile, questo almeno sembra valere per la poesia di Ungaretti (d’altronde in antichità la metafora era detta comparatio brevior). La retorica potrebbe essere definita come “scienza della menzogna” e, a ben vedere, la definizione calza a pennello se si considera la doppia tensione di Ungaretti a esprimere e al contempo celare una forte pulsione erotica nei suoi versi. Il segreto affascinante della retorica è la compenetrazione di due oggetti (quello proprio e quello traslato) che tuttavia mai sono riuniti in un unico terzo oggetto: sussistono sempre come realtà molto vicine, restando sempre a sé stanti.


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