di Anita Mestriner
Un confronto tra due visioni dell’autunno (sinonimo di guerra): quella di D’Annunzio e quella d’Ungaretti. Due poesie diverse per uno stesso orrore.
Non c’è nessuno, adulto o bambino, che non conosca o che non abbia mai sentito parlare di questo famosissimo componimento scritto nel 1918 da Giuseppe Ungaretti. Niente di più forte ed emblematico, può essere utilizzato per descrivere la precarietà della guerra. Si è in perenne bilico tra la vita e la morte. Pronti a cadere al minimo sospiro di vento. Ma non si è soli.
Quell’iniziale “si sta” indica fratellanza, comunità. Ed è anche una delle caratteristiche primarie della guerra, soprattutto di quella combattuta dal poeta, ovvero la prima guerra mondiale.
Ed è proprio l’esperienza vissuta in trincea che segna il punto di avvio dell’esperienza poetica di Ungaretti, e lo mette in contatto con la vacuità dell’esistenza. Badate bene però, Ungaretti non si interroga sul perché della guerra o se sia giusta o sbagliata, ma di come la paura della morte allontani l’individuo da se stesso e lo trascini in un esistere precario. La guerra si trasforma in un particolare esame di coscienza, poiché il poeta è portato a ricercare la sua condizione originaria e primaria che lo leghi ai suoi simili e al cosmo.
Il poeta Gabriele D’ Annunzio ha invece una diversa concezione della guerra, che utilizza per stupire. Infatti progetta imprese eroiche, come per esempio “la beffa di Buccari”, o il volo sopra Vienna in aereo, lanciando volantini che inneggiano al successo delle forze italiane. Ma nemmeno il super uomo è infallibile e immune dall’essere ferito.
Infatti nel 1916, dopo essersi arruolato come volontario in aviazione, D’Annunzio ha un grave incidente, che lo costringerà ad una cecità temporanea. Durante questa degenza forzata egli comporrà, rielaborando materiale già esistente, il Notturno.
Se quindi da una parte Gabriele D’Annunzio non esce scosso o provato da quello che è stato uno dei peggiori conflitti del ventesimo secolo, dall’altra il poeta Ungaretti rimarrà per sempre turbato nell’animo da ciò che ha dovuto vedere e subire in guerra.
Ungaretti non si affaccia all’orrore come un eroe, ma semplicemente come uomo e poeta. E questo forse è stato ciò che lo ha salvato.
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