14 Maggio 1948: alla scadenza del mandato britannico sul territorio considerato da alcuni “Terra Promessa“, “Terra Santa“, da altri “Sacro deposito” (Waqf), nell’allora neofondata città di Tel Aviv, avviene la Dichiarazione di Indipendenza dello Stato di Israele.
Quindi noi, membri del Consiglio del Popolo, rappresentanti della Comunità Ebraica in Eretz Israel e del Movimento Sionista, siamo qui riuniti nel giorno della fine del Mandato Britannico su Eretz Israel e, in virtù del nostro diritto naturale e storico e della risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dichiariamo la fondazione di uno Stato ebraico in Eretz Israel, che avrà il nome di Stato d’Israele. […] Facciamo appello – nel mezzo dell’attacco che ci viene sferrato contro da mesi – ai cittadini arabi dello Stato di Israele affinché mantengano la pace e partecipino alla costruzione dello Stato sulla base della piena e uguale cittadinanza e della rappresentanza appropriata in tutte le sue istituzioni provvisorie e permanenti.
La nascita di Israele
I confini di questo nuovo Stato, allora, erano stati stabiliti non senza difficoltà (tredici Paesi contrari su cinquantasei, di cui dieci astenuti) dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che decise di mantenere Gerusalemme, città più contesa, come zona neutrale.
L’idea di un ritorno nella terra in cui secondo la Bibbia scorrevano latte e miele, era rinata negli ebrei della diaspora da più di mezzo secolo, dando luogo al Sionismo, fondato nell’Europa dell’Est da Theodor Hetzl. Prima delle tragedie della Seconda Guerra Mondiale, fra gli obiettivi di chi lasciava il proprio Paese per recarsi nella Palestina di dominazione ottomana, e in seguito britannica, c’era il più delle volte la fondazione di comunità agricole, basate su princìpi a volte anche di ispirazione socialista. A spingere a partire non era solo l’appartenza alla religione ebraica, ma anche una coesione che aveva tratti nazionalistici, ben prima della definizione formale della Nazione. In quel periodo la spinta a unirsi di ebrei, a volte anche lontani geograficamente, nasceva in contemporanea all’acutizzarsi di sentimenti nazionalisti a livello degli Stati europei che, rafforzando i legami fra gli appartenenti alle culture maggioritarie, e fra esse e il territorio in cui vivevano, portarono all’esclusione più o meno esplicita di quelle minoritarie come la loro. Ad alcuni sarebbe bastata una collocazione qualunque, anche in Uganda, o da qualche parte in America (idee accennate al Congresso Sionista del 1903). Tuttavia la spinta delle Sacre Scritture verso Gerusalemme ebbe la meglio. Alcuni terreni occupati da questi primi migranti furono comprati o affittati dalla popolazione locale, di origine araba e più o meno islamica osservante. Per altri la situazione fu più complessa: la nascita di Israele spinse molti palestinesi a spostarsi al di fuori dei nuovi confini.
L’inizio degli scontri
Da quel momento, le incongruenze di opinioni e le diversità di esposizioni dei fatti emergono anche solo guardando la pagina “Israele” di Wikipedia nelle due lingue, arabo ed ebraico. Nella prima l’accento è posto sulla differenza in termini proporzionali fra le terre concesse a Israele (55%) e la popolazione ebraica di allora (attorno al 30%), e terre e popolazione palestinesi. Nella seconda, l’attenzione cade subito sull’attacco da parte dei Paesi arabi circostanti che ha coinvolto lo Stato appena fondato, sfociato nel primo conflitto arabo-israeliano, che ha portato alla fine a una modifica dei confini a suo favore.
Sostenitori di Israele ci tengono spesso a far notare come sin da quel momento quasi ogni guerra che ha visto lo Stato ebraico come protagonista, con l’eccezione della “Guerra dei Sei Giorni” del 1967, sia stata avviata da un atto ostile da parte degli oppositori, nonostante siano quasi tutte terminate nel guadagno israeliano di un vantaggio territoriale. Il caso più eclatante fra questi è quello della cosiddetta “Guerra del Kippur” (1973), chiamata così perché iniziata a causa di un pesante attacco da parte dell’Egitto avvenuto in corrispondenza del digiuno rituale ebraico, il quale ha portato a una massiva risposta militare, con la conquista dell’intera penisola del Sinai. La rinuncia a quell’estesa regione fu tuttavia un passo importante per l’attenuamento delle tensioni nel 1979, quando l’Egitto fu il primo Stato arabo a riconoscere ufficialmente Israele, tanto che attualmente si è proposta la citta de Il Cairo come sede dei negoziati per le fragili tregue in corso.
Il ruolo di Hamas
Appare sempre più difficile distinguere gli interessi religiosi da quelli nazionalisti, politici, o da quelli economici, in ognuno dei momenti di tensione degli ultimi settant’anni.
Al di là degli scontri con i grandi e formati Stati arabi nei dintorni, le controversie più forti stanno proprio internamente alla “Terra Santa”. La continua variazione dei confini, ben sorvegliati dall’esercito israeliano (composto da ragazzi più o meno ventenni chiamati a leva obbligatoria), influisce sulla vita quotidiana degli abitanti della Palestina, oggi divisi in due aree: la mediaticamente più conosciuta e nominata Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Il governo di queste due regioni dovrebbe essere unico, anche se nell’opinione pubblica la cosa è abbastanza differente.
“Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese, contraddicono tutte le credenze del Movimento di Resistenza Islamico. In verità, cedere qualunque parte della Palestina equivale a cedere una parte della religione. Il nazionalismo del Movimento di Resistenza Islamico è parte della sua religione, e insegna ai suoi membri ad aderire alla religione e innalzare la bandiera di Allah sulla loro patria mentre combattono il jihad” (Statuto di Hamas, articolo 13)
Questo punto di vista risulta purtroppo inconciliabile anche con i più generosi piani di pace, che vorrebbero una spartizione equa in base alla popolazione, e sfocia in lanci di razzi, spesso intercettati dal tecnologicamente avanzato esercito israeliano (Zahal), e in scavi di tunnel, per il deposito di armi e che permettano di oltrepassare i posti di blocco per attacchi terroristici. Questi presunti tunnel diventano così bersagli delle bombe lanciate nei raid aerei organizzati dallo Stato ebraico. Il problema etico dietro a questi raid è che le zone disabitate a Gaza sono poche, e colpire un tunnel o un deposito di armi vuol dire spesso colpire anche la casa di qualche civile con famiglia. A volte si usano strategie di avvertimento, come il cosiddetto “roof knocking”, il lancio di una bomba non esplosiva in corrispondenza del luogo in cui avverrà il bombardamento qualche minuto dopo. In questo modo si darebbe la possibilità ai civili di allontanarsi in tempo. Tuttavia, l’obiezione fatta da chi manifesta, anche dall’Italia, esponendo bandiere palestinesi, è che vista l’alta densità di popolazione e la generale povertà di condizioni di vita i civili avvertiti non avrebbero dove andare. Un modo per dissuadere i piloti israeliani, adottato dagli abitanti della Striscia, è invece salire in massa sui tetti obiettivo dei bombardamenti.
I tentativi di collaborazione
Ma l’opposizione allo Stato ebraico non è da sempre stato caratterizzato da motivazioni strettamente di tipo religioso. Hamas è nato meno di una trentina di anni fa (1987). Prima a riscuotere maggiore consenso, e ad organizzare la lotta armata, erano i movimenti di carattere nazionalistico più laico, come l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Con alcuni di questi movimenti è stato possibile in passato aprire trattative di pace, con il ritiro periodico delle truppe israeliane dai cosiddetti “territori occupati”, zone al di fuori dei confini riconosciuti dall’Onu, nelle quali son stati costruiti insediamenti per far fronte anche all’incremento demografico, dovuto anche in parte alla possibilità di avere quasi immediatamente la cittadinanza offerta a ebrei di ogni parte del mondo.
Un passo che purtroppo durò poco e sfociò nell’uccisione di Rabin da parte di un estremista suo concittadino, appena un paio di anni dopo.
Gli estremismi infatti, ci sono da entrambe le parti, e più i conflitti si inaspriscono, più si dà forza alle fazioni nazionaliste e meno aperte al dialogo. Oggi a capo del governo israeliano c’è Benjamin “Bibi” Netanyahu, appartenente al partito di destra Likud, che ha fatto dell’antiterrorismo e anti-Hamas il suo primo obiettivo, tanto da non essere disposto ad accettare facilmente proposte di tregua fino a che non avrà distrutto tutti i tunnel.
Nazionalismo a distanza
La vera particolarità del conflitto Israele-Palestina è che è più che mai evidente come i dissensi si estendano ben oltre gli instabili confini nazionali. Anche le Nazioni Unite sembrano aver perso di coesione e autorevolezza di fronte a contrapposizioni che appaiono tanto inamovibili, e intervenire diviene sempre più rischioso economicamente, oltre che politicamente, date anche le molteplici provenienze delle armi usate da entrambe le parti.
Particolarmente esplicite a sostegno di Israele si mostrano molte comunità ebraiche, come quella di Milano, che ha organizzato una manifestazione in piazza San Carlo, zona San Babila, venerdì 24 Maggio. Scortata da un muro di polizia a far la guardia alle transenne che chiudevano l’accesso alla piazza da corso Vittorio Emanuele, tenuta a distanza da un più piccolo gruppetto di bandiere palestinesi che gridava “assassini!”. Una folla di persone mostrava bandiere israeliane e cartelli contro Hamas, alternando canzoni con la parola Shalom (pace) a cori di sostegno all’esercito e inneggianti il diritto alla difesa. Parte anche il rumore di una sirena di quelle che si sentono in caso di attacco da parte di razzi lanciati da Hamas.
Esistono purtroppo differenze spesso non esplicitamente comprese fra essere ebrei, essere sionisti ed essere a sostegno incondizionato dell’operato di Israele. La mescolanza fra antisemitismo, sempre condannabile opposizione agli ebrei in quanto tali, e antisionismo, opposizione all’esistenza dello Stato di Israele, e/o al suo operato, sta causando danni da entrambe le parti: la paura dell’antisemitismo inasprisce e mette sulla difensiva gli ebrei di tutto il mondo, che diventano anche essi sempre meno aperti al dialogo, mentre a Roma compaiono scritte antiebraiche e svastiche, mescolate agli slogan antiisraeliani.