Diario di una zanzara

D’improvviso, l’ombra. Questa volta non c’è niente da fare, mi sono accorta troppo tardi. Nel momento esatto in cui lo schiocco buca la pelle e la mia bocca diventa il centro del mondo, il buio mi piomba addosso. Non ha neanche senso interrompere. Posso percepire distintamente lo sbalzo di temperatura crescere, mentre l’oscurità si fa più intensa. Presto la mano mi raggiungerà e sarà finita. Sono i miei ultimi pensieri e non so bene che forma dargli, sapendo che saranno quelli definitivi. Ma se fossi brava con le cose ultime, non sarei qui.

Il braccio sul quale sono posata è di un’immobilità forzata, mentre l’altra mano si avvicina veloce. Eppure non mi sembra di avvertire lo spostamento d’aria. Mi viene il dubbio di essere già fatta, di non accorgermene. Impossibile, ho appena iniziato.

Ultimamente l’effetto dura meno, poi devo rimettermi in cerca. E allora volo sbandando, schivo sempre più a fatica mani e sensi di colpa. Sento una sete reale ma non mia, come se da lontano il cuore di un donatore pompando mi tirasse nel suo circolo. Pare quasi che non sia io a voler bere questa cosa, ma questa cosa a voler bere me. È sempre stato così? Forse. Non so, non ricordo. La mia memoria è una pozzanghera asciutta. Ricordo a malapena quando bere era ancora divertente.

C’era questo gioco, che facevamo con Zara e Zora. Era la fase del compiacimento, l’epica della bevuta. Ci perdevamo senza neanche accorgerci che ci stavamo perdendo, ognuna dietro la propria sete. Poi ci si ritrovava all’improvviso e ci si sorprendeva due volte: quando capivamo di esserci ritrovate e quando realizzavamo che ritrovarci implicava essersi perse. E allora ci sembrava naturale raccontarci l’un l’altra i momenti salienti della propria avventura solitaria. Era la parte migliore di tutta la faccenda. Forse anche più dell’effetto dell’alcol in sé. A volte pensavo che questo gioco fosse un modo per ingannare i postumi, renderli più sopportabili. Più spesso mi capitava di arrivare alla conclusione che fosse il vero motivo per cui uscivamo a bere sangue pazzo: per rievocare dopo. Era un tentativo come un altro per sentirci meno sole. Così non smettevo.

Sento l’aria farsi sempre più fredda e pesante sopra di me. Un’alba al contrario. Non mi passa neanche per la testa l’idea di scamparla stavolta. Continuo a tirare. Per fortuna il sangue pazzo inizia a fare effetto.

Una volta c’ero quasi riuscita, a smettere. Eravamo a casa di questo donatore e avevo passato il tempo a guardare Zara e Zora che bevevano e sembravano divertirsi come mai prima. Ero convinta che mi sarei sentita meglio, invece mi ero sentita lontana. Perché è questo il problema: se esci e non bevi, a un certo punto rimani indietro. Ti vien sonno prima, inizi a perdere colpi. Hai meno argomenti, iniziativa, complicità. Puoi mantenere liscio e intatto lo stagno dei tuoi propositi, ma ti renderai conto che sarai la sola a specchiartici. Ed è lì che il bisogno ti prende per le ali e comincia a fare sul serio. Sentivo le zampe accartocciarsi come sospese su una fiamma viva e la gola mi faceva male, talmente era secca. Non bevevo da diverse ore. Ne avevo bisogno.

Quel tizio aveva un sangue pazzo fortissimo e le altre ronzavano da un punto di estrazione all’altro. Lui non reagiva. Le mani, lungo i fianchi, non proiettavano nessuna ombra. Non sapevamo cosa avesse bevuto, ma doveva essere qualcosa di davvero forte. Se ne stava lì, in piedi in mezzo alla stanza, rigido come il destino. Sapevamo che era sveglio – che era vivo – solo per quella sua posizione un po’ troppo eretta. Per il resto non sembrava più consapevole di una scopa. Io guardavo lui e le mie amiche trasfigurate dall’alcol, e tremavo fino alla punta della bocca dalla voglia di farmi. Resistevo, ma nel tentativo di sottrarmi alla voglia mi ero rifugiata nella mia testa. Davvero ingenua. Non avevo fatto altro che portare il bisogno ancora più dentro, in profondità. Sapere perché si fa qualcosa è il primo passo per smettere di farlo, mi ripetevo. Ma ero già oltre i perché e le risposte, oltre tutto ciò che non riguardasse il modo più veloce per farmi. Ricordo il volo stentato, ricordo che cercavo di prendere la mira, ma tremavo così forte da non riuscire a tenere la bocca in posizione per più di qualche istante. La punta entrava e scappava fuori. Ricominciavo. Ci vollero quattro o cinque tentativi prima di riuscire a tirare con una certa continuità. Tiravo e intanto affondavo nel bisogno come si affonda nel miele, lentamente e senza possibilità di risalita. Tutto intorno a me cominciava a rinnovarsi, ogni cosa sputava fuori un altro sé identico, ma un po’ più sciupato. Il mondo vomitava se stesso, era una grande matrioska ubriaca. E io sapevo che non avrei mai smesso.

Questa volta però è diverso. Sento un freddo mai sentito, vedo sempre più a fatica. Lo spostamento d’aria potrebbe darmi il colpetto finale nella fuga, ma è troppo tardi. Questa volta smetto tutto in un colpo solo.

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