Trump candidato al Nobel per la pace: la sua politica estera

Il presidente degli USA, Donald Trump, è nella lista degli oltre 300 candidati (318 per la precisione, un record storico) per il Nobel per la pace del 2021. Il suo nome viene dal norvegese Christian Tybring-Gjedde, deputato conservatore e presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato. “Il comitato dovrebbe guardare ai fatti e giudicarlo su quelli, non sui comportamenti” – sostiene il deputato. Inoltre aggiunge che l’attuale Presidente ha fatto ben più del predecessore, Barack Obama, che l’ha ottenuto nel 2009. Non è la prima volta che The Donald viene nominato al premio, il precedente risale al 2019 e il suo nome era stato sempre proposto da Tybring-Giedde. In quel frangente, il motivo addotto furono gli sforzi fatti da Trump per la pacificazione tra Nord e Sud Corea. Ora invece la nomina deriva dal diretto impegno per la firma degli accordi di normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti.

Cos’ha fatto il presidente sulla scena internazionale?

I risultati ottenuti non sono pochi e nemmeno trascurabili. Non bisogna dimenticare che il Presidente non si è impegnato in nessun nuovo conflitto armato. Inoltre, si contano una serie di pacificazioni e riconciliazioni (o almeno dei tentativi ) nelle zone più “calde” del globo . Ha contribuito a siglare uno storico accordo di pace tra USA e i talebani, si è fatto promotore di un disgelo nei rapporti tra le due Coree e, come già detto, ha lavorato da intermediario negli accordi di normalizzazione tra Israele e Emirati Arabi Uniti. Spostandoci invece nel continente europeo, Kosovo e Serbia hanno di recente siglato a Washington un accordo di normalizzazione economica.

Accordo tra Serbia – Kosovo

La firma è avvenuta nello studio ovale della Casa Bianca in presenza di Trump, a dimostrazione dell’impegno speso in prima persona per l’accordo. Egli ha così potuto presentare alla stampa internazionale un nuovo traguardo, con un occhio di riguardo per i sondaggi, a meno di due mesi dal voto.

L’accordo siglato prevede il riconoscimento reciproco tra Kosovo e Israele, oltre alla promessa di Belgrado di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme, sulla scia di quanto già fatto da Trump (maggio 2018). I dubbi sulla reale efficacia dell’accordo restano, a partire dal lessico utilizzato. Formalmente, non è corretto parlare di accordi perché i due paesi non hanno firmato nulla congiuntamente. Di fatto, sarebbe meglio parlare di una dichiarazione di intenti, nulla di più. Osservatori internazionali parlano di un testo che porta ben pochi cambiamenti nelle relazioni tra i due Paesi firmatari, con effetti però importanti su tutta l’area mediorientale. Oltre alla promessa di spostare l’ambasciata, entrambi i paesi inseriranno Hezbollah (che in Libano ha rappresentanza politica) tra le organizzazioni terroristiche. Si tratta di due elementi che sanciscono la vittoria di Israele, nonostante non abbia partecipato direttamente ai negoziati.

Normalizzazione dei rapporti tra Israele e Emirati Arabi Uniti

Normalizzazione significa inizio di relazioni diplomatiche; già questo rappresenta una svolta enorme perché nessun paese arabo del Golfo Persico aveva mai ufficialmente riconosciuto Israele. Prima dell’accordo, solo Egitto e Giordania riconoscevano a tutti gli effetti Israele come Stato sovrano. Infatti, nessuno Stato del Medio Oriente apprezza le rivendicazioni di sovranità israeliane su diverse aree della Cisgiordania. Nell’accordo siglato, Israele si impegna a sospendere l’annessione di alcune zone della Cisgiordania ottenendo in cambio la normalizzazione dei legami con gli EAU.

Trump ha annunciato l’intesa tramite Twitter, pubblicando il comunicato congiunto dei tre Paesi firmatari. Netanyahu si è detto più che soddisfatto dell’accordo, definendolo storico e dicendosi convinto del fatto che questo evento possa aprire la strada ad intese anche con altri Paesi. Si ritengono soddisfatti anche gli Emirati, i quali da diverso tempo cercano di presentarsi  all’Occidente come interlocutore valido per la risoluzione delle crisi mediorientali. Non secondario anche il loro possibile interesse verso le armi avanzate di produzione USA, inaccessibili in precedenza a causa dei cattivi rapporti con Israele. Dura invece, com’era lecito aspettarsi, la presa di posizione del presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen, l’unico uscito realmente sconfitto dall’accordo. Il leader palestinese infatti sostiene che gli Emirati Arabi non abbiano alcun diritto di parlare a nome dei palestinesi.

Di fatto, è ancora difficile quantificare gli esiti. Può essere sicuramente letto come un evento apripista nell’ottica di ampliare i termini dell’accordo, includendo anche altri Paesi arabi. La grande svolta avverrebbe qualora l’Arabia Saudita decidesse di sottoscrivere i termini dell’accordo. La monarchia Saudita è infatti, insieme ad Israele, il principale nemico dell’Iran e custode dei più importanti luoghi di culto della religione islamica. Quel che è certo al momento è che si tratta di un’importante vittoria diplomatica per Trump in una regione di difficile gestione.

Mancanza di un progetto coerente: la principale critica a Trump

Maya Kandel, esperta di politica a stelle e strisce, riassume nel suo libro la politica USA dicendo: “La politica estera di Washington è sempre stata e sarà sempre anche politica interna”. Nel caso di Trump, la politica estera è politica interna. Il nuovo corso di The Donald si è inaugurato attraverso la destrutturazione, pezzo per pezzo, di quanto siglato da Obama nei suoi due mandati presidenziali. Tra questi ricordiamo gli accordi con l’Iran sul nucleare e quello di Parigi sul clima. Il problema, sottolinea la Kandel, è dettato dal fatto che a questo non è seguito un progetto alternativo. I successi internazionali, perché ci sono stati, sono paragonabili a istantanee che però non riescono a inserirsi (non ancora quantomeno) in un progetto su più ampia scala.

 

 

 

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