L’informazione ai tempi del COVID: radio Gargaar

Il COVID-19 ha raggiunto ogni parte del mondo con effetti più o meno drammatici a livello economico, politico e sociale. Il continente africano non è stato risparmiato e probabilmente, anche a causa di dinamiche interne, il ritorno alla “normalità” sarà molto lento e difficile. Risulta dunque imprescindibile che la campagna di informazione sul virus sia chiara e comprensibile.

Fondamentale in tal senso è l’attività promossa da Abdullah Mire, un conduttore radiofonico attivo a Dadaab (uno dei maggiori campi profughi in Kenya). Abdullah ha iniziato un programma quotidiano in cui sfata miti sul COVID e diffonde le notizie trasmesse dagli organi internazionali, in prima luogo l’OMS. Radio Gargaar, esemplare unico in tutto il territorio, e il suo conduttore hanno raggiunto un altissimo grado di popolarità, ottenendo così il titolo di “corona guy”.

Egli è strenuamente convinto del fatto che la radio sia il mezzo migliore per comunicare alla popolazione, anche perché legata all’antica tradizione di trasmissione orale del sapere. Il problema principale è rappresentato dalle possibilità d’azione di Mire: “A Dadaab si fanno code per qualsiasi cosa. Il distanziamento sociale è impossibile, centinaia di persone condividono un unico rubinetto dell’acqua”. L’impossibilità di attuare correttamente certi comportamenti dunque è evidente a tutti, primi tra tutti il distanziamento sociale e un frequente lavaggio delle mani.

Il Kenya è una delle principali mete per i profughi in Africa: qui sono stati accolti circa mezzo milione di sfollati, in maggioranza persone fuggite dai conflitti in Somalia e Sud Sudan. Uno dei rischi più grandi, secondo Mire, è che il governo possa utilizzare i profughi come capro espiatorio. Molte volte infatti nei momenti di crisi la paura è indirizzata verso lo straniero (tutto il mondo è paese in fin dei conti). Non sarebbe la prima volta che il governo si dimostra intenzionato a chiudere il campo, l’ultimo tentativo risale al marzo del 2019, ma è poi sempre tornato sui suoi passi.

All’interno della sua trasmissione Mire si trova anche costretto a condannare certe teorie e credenze ritenute vere. Ad esempio, si afferma che il virus non abbia effetto sui somali o che le cinque preghiere quotidiane dell’Islam proteggano dal contagio.

Numerosi Stati hanno adottato protocolli speciali per la situazione di emergenza, moltiplicando i posti letto disponibili in isolamento (il ventilatore disponibile è solo uno). Si tratta però di misure irrilevanti, non sufficienti nel caso un focolaio dovesse scoppiare in un paese o addirittura in un campo profughi.

La pandemia in Africa

Secondo il parere dell’OMS, il continente africano dovrà fare, e in parte sta già facendo, i conti con un’epidemia silenziosa. Ciò significa che i leader politici africani non stanno attribuendo grande priorità ai test per il COVID, sia per deficit strutturali sia per decisioni personali. Mediamente, si parla di 420 test per 100mila abitanti, le differenze sono però rilevanti da Stato a Stato. In ogni caso, è importante tener presente che si sta parlando di un continente di circa 1.3 miliardi di abitanti con sistemi sanitari dotati di scarse risorse già in situazioni di normalità.

Il Sud Africa è il primo Stato nel continente per numero di test effettuati. Si stima che proprio lì ci siano al momento 500mila positivi, oltre il 40% della totalità dei casi africani. Per quanto riguarda l’area occidentale, è invece il Ghana ad occupare la prima posizione per numero di tamponi.Discorso diverso per le nazioni del Nord Africa che contano, sommando il numero totale, solo 35mila test effettuati (dati presi dall’analisi effettuata dal Centro Africano per il controllo delle malattie e la prevenzione, Africa CDC).

In totale, il continente conta cinquantaquattro stati ma solo Sud Africa, Marocco, Gibuti e Ghana sono stati capaci di effettuare test su ampia scala. Va però ricordata la debolezza strutturale di alcuni Stati dal punto di vista medico e laboratoriale. Ne è un esempio la Nigeria: a fronte di una capacità di laboratorio di 10mila test quotidiani, la realtà è che per carenza di tecnici e problemi logistici non si sono mai superate le 2500 unità. Lo scarso numero di positivi in tutto il continente dunque è spiegabile attraverso questa semplice constatazione: il numero dei test è insignificante se paragonato alla popolazione totale.

Disinformazione endemica

La circolazione di notizie false sul COVID rischia di fare più danni dell’epidemia stessa, frase scontata ma mai abbastanza ripetuta. Fake news che non sono prerogativa del solo continente africano. L’Europa stessa e gli USA hanno infatti avuto casi eclatanti di disinformazione, sostenuti anche da esponenti politici di primo piano. All’interno dei Paesi africani c’è chi diffonde la voce che l’epidemia colpisca solo i bianchi, oppure che si tratti di una cospirazione messa a punto da case e laboratori farmaceutici (fake news presente anche fuori dall’Africa).

Tra i primi Paesi a muoversi contro il dilagare di questa disinformazione si trova il Sud Africa, che ha deciso di punire con la prigione i diffusori di fake news. Allo stesso tempo, le autorità sudafricane si sono attivate concretamente per la trasmissione di informazioni corrette. A livello governativo si è istituito ad esempio un apposito servizio tramite WhatsApp per fornire puntuali indicazioni ai cittadini, dai sintomi della malattia ai possibili metodi per prevenire il contagio.

FONTI

Abdullahi Mire – Radio verità. Ismail Einashe, Coda, Stati Uniti. Internazionale, p. 66 – 67, numero 1367

Focusonafrica.info

Africarivista.it

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