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Fast Fashion: lo sfruttamento dietro agli abiti “cheap”

Quando si parla di Fast Fashion in genere si tende a sminuire questo fenomeno, ma in realtà al giorno d’oggi i consumatori ed i venditori dovrebbero interessarsi maggiormente a questa tematica e cercare di sensibilizzare il prossimo; ma come? Semplicemente con l’informazione.

Di cosa si tratta?

A riguardo è palese che ci sia molta disinformazione, ma quando si affronta il tema della Fast Fashion ci si approccia ad una triste realtà che riguarda lo sfruttamento di uomini e donne, spesso in paesi come l’India, il Vietnam o la Cambogia, costretti a lavorare in pessime condizioni, senza essere giustamente retribuiti e facendo turni di lavoro estenuanti. Secondo quanto viene raccontato nel documentario The True Cost (diretto da Andrew Morgan e co-prodotto da Livia Flirt) la cosiddetta “fast fashion” sarebbe il risultato della frustrazione da parte dell’uomo occidentale che, a causa della crisi economica, è spinto a comprare vestiti economici (o meglio cheap) proprio perché non può permettersi abiti costosi.

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Grandi marchi che fanno scandalo

Molte marche famose, ma anche molto accessibili al pubblico (tra cui ad esempio H&M e Zara) sono state coinvolte nello scandalo della Fast Fashion, e il motivo per cui questi colossi industriali della moda scelgono di produrre in paesi più poveri è semplicemente per il fatto che la manodopera è quasi pari allo zero. Quando poi in questi paesi i lavoratori tentano di ribellarsi o protestare in maniera pacifica, spesso vengono messi a tacere con la violenza per evitare che questa verità “nascosta” si diffonda fino ad arrivare nel mondo occidentale.

Condizioni degradanti

Per chi vive in paesi ricchi, o comunque industrializzati, come gli italiani, gli americani o i tedeschi ad esempio, è difficile comprendere come sia possibile che nei paesi del terzo mondo uomini, donne e bambini, senza nessuna esclusione, siano costretti a lavorare in situazioni igienico-sanitarie pessime, guadagnando poco più di qualche euro all’ora e rischiando molto spesso la vita. Uno degli esempi più lampanti è stato l’incidente del 24 aprile del 2013 che ha causato la morte di migliaia di lavoratori (circa 1.380 morti); da quel momento in poi il governo del Bangladesh si è impegnato ad aumentare il salario minimo da un equivalente di 29 euro a 78 euro (che è comunque molto basso per i nostri standard). Quello che è ancora più assurdo però è il fatto che ad oggi, nel Ventunesimo secolo, essendo i mezzi di informazione parte della nostra quotidianità, tutto ciò sia risaputo, ma sembra che nessuno faccia qualcosa o intervenga per migliorare la situazione in quei paesi in cui lo sfruttamento ormai è diventato una consuetudine.

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L’ipocrisia della Fast Fashion

Tutti quei brand che si sono abbassati a sfruttare i più deboli sono anche quelle case di moda che sponsorizzavano il movimento attivista impegnato nella lotta contro il razzismo “Black Lives Matter”; recentemente ad esempio, dopo la morte di George Floyd, moltissime firme hanno approfittato del tragico avvenimento per accumulare seguaci sui social e per vendere i propri prodotti. Si tratta realmente di ipocrisia e incoerenza, nonché mancanza di rispetto verso il prossimo. Come si può vendere un prodotto (approfittando di una causa comune come la lotta contro il razzismo piuttosto che il riconoscimento dei diritti per le comunità LGBT) la cui realizzazione ha implicato in precedenza lo sfruttamento di un altro essere umano? Follia pura.

Come mettere fine a tutto ciò?

In una società così industrializzata come la nostra è parere comune che la situazione sia molto difficile da cambiare, poiché le radici di questo cambiamento sono molto fragili e poco insediate nel terreno; in pochi si battono per i diritti umani, in particolare per i paesi del terzo mondo, e se ci sarà un cambiamento, ci vorrà comunque molto tempo per attuarlo. Ognuno di noi però col tempo può fare la differenza, innanzitutto cercando di comprare meno capi ma più costosi; in questo modo è possibile migliorare la evitando la cosiddetta moda “usa e getta” e investendo invece i capi realizzati con tessuti migliori e in paesi in cui le industrie tessili sono legalizzate e controllate, in cui il personale riceve un salario adeguato e lavora in condizioni igienico-sanitarie a norma di legge. Insomma, se ognuno farà la propria parte, c’è la speranza che in futuro la situazione potrà migliorare e verrà definitivamente abolita la Fast Fashion a favore di un commercio e di una produzione tessile limpida e sicura, sia per i lavoratori che per i compratori.


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