Dove siamo quando pensiamo? Uno spunto di riflessione e un assaggio di filosofia antica (p. 2)

L’ascesi teoretica della morte apparente e la nascita della filosofia: come i perdenti trasformano una sconfitta in vittoria

Riprendiamo il discorso da dove lo avevamo interrotto (se ve lo siete perso, potete rileggerlo QUI). L’accusa che viene mossa contro chi, pensando, finisce altrove, è quella di perdere contatto con il mondo. Chi pensa si sente quasi sbagliato, fuori luogo, diverso.

A riprendere l’argomento è il filosofo Peter Sloterdijk nel suo libro Stato di morte apparente. Il discorso da affrontare è estremamente complesso, ma cercheremo qui di semplificarlo. Non è questo il luogo adatto per chiarire davvero dove andiamo quando pensiamo, anche perché… chi davvero può dirlo? Può però essere utile riflettere su come queste assenze improvvise e fughe nel pensiero sono state interpretate dagli antichi.

Se pensiamo alla filosofia platonica, ciò che emerge dalla lettura di dialoghi quali il Fedro, il Fedone, L’Apologia di Socrate e molti altri è la teoria dell’immortalità dell’anima. È bene precisare che non ci si riferisce ad un’immortalità dell’anima di tipo cristiano. Per i cristiani l’anima è immortale nel senso che c’è un dopo la morte, ma, di fatto, le possibilità di vivere bene per conquistare il paradiso si riducono ad una. Per la filosofia platonica, invece, le possibilità di vita sono potenzialmente infinite, perché Socrate (o sarebbe meglio dire, il Socrate platonico) fa propri i misteri orfico-pitagorici che sostengono la reincarnazione dell’anima dopo la morte.

L’anima vive dunque prima della nascita e dopo la morte. Se l’anima è immortale e tende alla reincarnazione, ne consegue che il corpo sia visto come un ostacolo per l’anima, un impedimento, un “fastidio” che necessita di cibo, cure, attenzioni, che segue gli istinti ed impedisce all’anima di volgersi alla contemplazione delle cose ultraterrene, le uniche che contino veramente. Cosa può fare il filosofo, consapevole del fatto che dopo la morte il corpo si distruggerà mentre l’anima continuerà a vivere? Il filosofo può, già in vita, esercitarsi a staccare il più possibile l’anima dal corpo, così che, una volta arrivato il momento della morte, saprà già come vivere senza il corpo. Addirittura, nel Fedone viene detto che filosofare non è altro che imparare a morire.

A tal proposito il filosofo deve saper far uso dell’ascesi teoretica: la morte apparente di tipo teoretico:

…assomiglia, secondo quanto affermano i classici, al tentativo di raggiungere durante la vita una condizione analoga all’essere morti

nell’ottica in cui, come detto, la morte è considerata una liberazione dell’anima dal corpo. A provare questa lettura socratica della morte ci viene in soccorso l’interpretazione fornita da Nietzsche delle ultime emblematiche parole pronunciate da Socrate nel Fedone. Il Socrate morente, che ha serenamente bevuto la cicuta che sta per ucciderlo, dice:

Ricordatevi di sacrificare un gallo ad Asclepio.

Nella cultura popolare greca, si era soliti sacrificare un gallo ad Asclepio nel momento della guarigione da una malattia. Perché mai Socrate avrebbe dunque dovuto chiedere di sacrificare un gallo ad Asclepio nel momento della propria morte, se non pensasse che morire significhi guarire dalla malattia del vivere?

pensiamo

È proprio durante le assenze del pensiero, le assenze teoretiche, o morti apparenti, che il filosofo si “stacca dalla vita”, dedicandosi alla propria anima. Si tratta, come nota giustamente Sloterdijk e come detto anche da Pierre Hadot, di un esercizio (Pierre Hadot parlerà a tal proposito di esercizi spirituali). Il filosofo si esercita a morire, impara ogni giorno a morire, a staccarsi dal corpo. Dopo la condanna a morte di Socrate, il quale, oltre a filosofare all’interno della polis, spesso infastidendo i propri concittadini, talvolta si assentava con il pensiero in luoghi pubblici, emerge chiaramente che la vita nella polis, per il filosofo, è sempre un rischio.

Allora Platone, che vuole evitare la morte di altri preziosi filosofi, inventa l’Accademia. L’Accademia, un luogo eteropico, come dirà Foucault, perché è sì nella Polis, ma segue leggi proprie. All’interno dell’accademia ognuno è libero di assentarsi liberamente con il pensiero e andare altrove, senza venire giudicato o condannato.  Il pensatore è libero di ritirarsi dalla sfera della coesistenza pubblica, riempita di voci contrastanti e diverse, per ascoltare un solo pensiero coordinato: il suo. È l’estasi (ekstasis): l’esistenza si presenta come la tensione in un altrove, o, secondo Arendt, un da nessuna parte. Sarà Heidegger a notare che le parole ekstasis ed existentia sono accomunate dal prefisso ex-, che indica lo “stare fuori”: altrove. Sempre Heidegger, in Che cos’è la metafisica, scrive:

Esser-ci significa: essere trattenuti nel nulla.

Non a caso, Sloterdijk nota che le correnti filosofiche volte alla teoresi nascono quando i modelli politici entrano in crisi. A ben guardare, in effetti, Socrate viene condannato nel momento in cui la democrazia ateniese del V secolo entra in crisi. La risposta di Platone e l’istituzione di un’accademia, una scuola. Questa mossa è figlia di una sconfitta (la condanna a morte di Socrate) che vuole essere riconvertita in vittoria.

Dimostra ciò che i perdenti possono fare per trasformare all’ultimo minuto una sconfitta in vittoria.

Una nuova interpretazione della morte, solitamente letta come la sconfitta per eccellenza, destinata invece a essere riconvertita nella scena topica della filosofia tout-court.

 


FONTI

Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Torino, 2010

Michael Erler, Platone, un’introduzione, Einaudi, Torino, 2008

Peter Sloterdijk, Stato di morte apparente, filosofia e scienza come esercizio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011

Platone, Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Mondadori, Milano 2004

Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2018

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