Prospettiva spirituale sull’Europa

L’Europa del nostro secolo è un’Amazzonia spirituale. La violenza, gli sconvolgimenti e gli incendi sconvolgono le strutture fisiche: annegano, bruciano, sradicano e torturano le conformazioni materiali delle leggi naturali, quei principi che regolano il mondo sensibile, e che non hanno nulla a che vedere col noumenico. La natura, che è materia viva oppure inerme, vegeta in un passivo contrattacco tra forze riequilibrate, ordini sconvolti e limiti sfondati. Spesso è la nostra specie, l’Umanità, a catalizzare o addirittura a innescare qualche rottura, prendendo di pugno duro il controllo di quella pacifica passività: l’ecosistema. Oppure gli ecosistemi, come forse è più appropriato.

Tuttavia l’essere umano, nella sconcertante sincronia della sua bivalenza esistenziale, riesce a coprire e quindi a dominare non solo il campo del sensibile, ma anche quello del noumenico. Arriva dove le leggi della natura non hanno più interessi: nei misteri, nelle idee, negli spazi di ciò che vive della sua sola logica immateriale. Le nostre idee non hanno bisogno di un realizzatore materiale: vivono dell’indiscussa autonomia del cogito dal fisico. Per questo l’Europa è un problema amazzonico, un problema di cataclismi che non contempla gli assestamenti di leggi naturali: l’Europa è in un pericoloso momento morale, spirituale, umano, e le acque, i venti e i fuochi che distruggono gli ecosistemi hanno la stessa potenza sublime delle paure e delle correnti di pensiero, degli spiriti innescati e delle favole ingestibili.

Ma se i problemi sono autoevidenti, le definizioni lo sono di meno.

L’Europa: cos’è questo pericolante dominio spirituale?

Attraverso lezioni di Lucien Febvre del 1944-45, tenute al Collège de France, possiamo delineare il lento e periglioso cammino che ci ha portato dal mondo romano al mondo europeo, il prodotto di un’idea così generalizzata ma molto vaga. Gli interessi sono quelli di una “genesi storica” del concetto di “Europa” e di una “psicologia storica” della consapevolezza che gli umani hanno avuto di questo concetto. Quest’ultimo problema è il più semplice: una ricerca filologica adeguata mostra che l’élite culturale degli Stati continentali più avanzati ha cominciato a parlare di “Europa” tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo.

Ma quello dell’Europa è ancora un campo piuttosto brullo: l’Europa di Commynes (e persino, in ritardo coi tempi, di Sully) è ancora un sostrato di cristianità, una regione geografica distinta dall’immonda barbarie delle religioni “false”, quelle asiatiche. L’Europa di Commynes è la più invidiabile e civilizzata regione del mondo, e non vale più la pena, agli inizi della società moderna, continuare col costume medievale di rubare la moda e le idee agli arabi: dalle sete musulmane al vestiario francese, dalle edizioni di Avicenna alle edizioni autonome sui testi greci di recente acquisizione. Un germe di fierezza balza nel cuore di questi giovani europei, che però non hanno ancora un’Europa. Questa dovrà aspettare.

La “genesi storica” condotta da Febvre pone all’origine del disegno europeo una “forma” carolingia: da una materia puramente mediterranea come quella romano-ellenica, incapace da sola di esaurire il dominio dell’idea di Europa; e da una materia nordica, barbarica, proveniente da luoghi alieni all’ideologia romano-mediterranea; la storia “forma” la prima costituzione politica di Europa, in un’unità geografica, religiosa e di forma di vita, nel Sacro Romano Impero di Carlo Magno. In Europa devono stare al centro sia l’Italia, che la Francia, che la Germania, etc., non solo il centro Italia, e persino Alessandria e Atene. Se March Bloch sosteneva che la nascita d’Europa coincide con la morte dell’Impero Romano d’Occidente, Febvre sposta il discrimine un po’ più in là: il tessuto originario della nostra Europa è l’Impero cristiano (e solo nominalmente romano) di Carlo Magno.

spirituale europa

Le trasformazioni, poi, sono tante. Chi sia anche solo per un minimo informato sul tragitto della storia medievale e moderna capirà bene che un’idea unitaria di Europa non si troverà mai a casa sua negli spazi regionali dell’Europa di Commynes: feudalità, signorie, repubbliche, principati, nazioni, nazionalità, imperi, province, viceregni… L’Europa di Carlo non è stata di certo un’Europa stabile: non è stata un modello-stampo, ma solo una simpatica iniziativa spirituale. Nemmeno adesso esiste un’unità d’Europa in senso spirituale e tantomeno politico: non esiste che si consideri Dostoevskij come “nostro” allo stesso modo in cui lo si considera Petrarca, e inoltre non esiste che l’UE si possa definire direttamente “sovrana nei miei confronti”, negli affari della “mia gente”. Portiamo ancora, purtroppo, i residui di quel grande inciampamento nel percorso verso l’Unità d’Europa che è stato il nazionalismo.

Non può esistere, per condizioni esistenziali, un nazionalismo inclusivo e unitario: le nazioni scelgono la propria mitogenesi e i propri idoli, impongono il proprio egoismo e la loro volizione anche e soprattutto quando si dichiarano “sorelle”, nelle frequentissime lotte fratricide di un riconoscimento reso impossibile dall’alterità. L’Europa, dice Febvre, è un idea che necessariamente si realizzerà, perché la storia dall’800 a oggi è scritta in modo che essa accada: siamo la stessa gente, storicamente, caratterizzata da destini statali e correnti cronachistiche diversi, ma siamo essenzialmente legati alla stessa storia in quanto europei. Non siamo mai riusciti ad esserlo in maniera piena per via degli assolutismi contrastanti, dell’imposizione di potenze superiori, degli equilibri stabiliti dalle paci armate, ma l’unità è leggibile senza alcuno sforzo teorico.

Medesimo ideale di cultura

“Medesimo ideale di cultura” vuol dire la medesima intenzione che muove la creatività trasformativa individuale: una comunità di gente che si comporta pressoché allo stesso modo quando si tratta di evolvere, nel senso di evolversi in senso umano, rapido, e non coi lenti passaggi dei processi naturali. Al luogo Europa è data quella connotazione soprasensibile non contemplata dalla sensibile Amazzonia perché esso riguarda il divenire spirituale: è un oggetto delle complesse e sovrapposte correnti della cultura e delle culture umane, trasformativo nella sua essenza perché frutto della creatività civile umana, che riguarda le trovate e volontà degli individui e non più le rigide leggi generali della natura greggia. La cultura si risolve nel singolo e, tuttalpiù, si generalizza nel sociale, con un’evidente retropropagazione, ma con un’assoluta secondità causale. La civiltà europea è nelle mani, come è nata, degli individui, perché essa è un Europa umana in maniera sottintesa ma essenziale, è un luogo ideale, di somma, di sistematizzazione ma anche, molto spesso, di accumulo.

Insomma: l’Europa è un’idea complessa, impugnata da chiunque nelle proprie ragioni personali e quindi colta ultimamente da nessuno. L’Europa è persino una faccenda araba, cinese, americana e subsahariana. La chiusura maomettana del Mediterraneo e la conseguente chiusura dell’economia carolingia nell’agricoltura nordica è la tesi centrale del pensiero medievista di Pirenne, e la natura musulmana, araba o turca, è stata per millenni la definizione principale e negativa di appartenenza all’Europa: europeo perché non musulmano, perché intimorito dagli imperatori, perché perseguitato dai pirati mori, ma anche perché arricchito dell’esotismo delle sete indiane. La Cina, poi, è la proverbiale matrice di tutte quelle “nostre” grandi invenzioni, il Giappone è la terra di educazione internazionale della Chiesa Cattolica, come del resto l’America del Sud; e l’estremo oriente in generale, attraverso Marco Polo, è stato la pietra inaugurale dello sviluppo dell’Europa estesa: Colombo ha letto il Milione, e da lì sono nati il mercantilismo e il colonialismo. Ma prima di Colombo ci pensavano i portoghesi, che scoprivano che la fertile e familiare Africa mediterranea proseguiva lungo l’Atlantico, sotto il Sahara: aveva un Capo di Bojador, persino un Capo di Buona Speranza, e permetteva di riscrivere l’economia, la politica e la cultura europee garantendo a Vasco da Gama e alla corona iberica un passaggio all’oceano indiano, di lì a poco un altro lago europeo. Non dimentichiamo, per ultimo, che l’Europa ha scoperto l’opinione pubblica e la sua forza militare durante la nascita degli Stati Uniti, la peste e la cavalleria con le incursioni mongole.

Sono tuttavia solo la narrazione storica e filosofica a far nascere la storia e la filosofia dell’Europa, in un circolo virtuoso di compartecipazione e assestamento di destini diversi, spesso feudali, spesso imperiali, più tardi nazionali e più tardi ancora popolari. Non esiste Europa se non nelle convinzioni del nostro spirito, nella certezza di rispondere allo stesso appello quando si parla di una configurazione ideale, non geografica, non sovrana e non identitaria. È evidente che Germania, Francia, Polonia, Spagna, Italia e Lituania abbiano avuto destini storici diversi e cristallizzazioni culturali disomogenee; ma la risposta all’appello di una classe univoca di storicità e filosofia è indubbia dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno. Del resto, non è Europa pure l’Egitto? Fino a un certo momento storico, sì. Per un certo momento lo sono state persino l’India e la Cina, più facilmente l’America. Il catasto spirituale dell’Europa non si può redigere senza prendere nota di contributi e prestiti da parte di zone del mondo inglobate, poi centrifughe ed ora lontane. La geografia, comunque, per lo spirito europeo, non è mai stata un grosso problema.

Come nota Febvre: nel XVIII secolo il concetto di Europa esisteva solo tra la gente colta, tra  Voltaire, Diderot e D’Alambert e i vari intellettuali, nobili, re e regine che bevevano dal loro genio, dalla loro lingua, dal lusso di Versailles e dalle parrucche di Parigi. Quella di allora era un’Europa dominata da un’elegante, raffinata, benpensante, brutale e sanguinaria casta di privilegiati, quei luminosi tiranni e cortigiani accoliti che si scrivevano centinaia di lettere da castello a castello. Poi è arrivata la Rivoluzione, le rivoluzioni, con la loro “guerra ai castelli, pace alle capanne”. E così, dopo un lungo periodo di stabilità dispotica, la politica e la rappresentanza sono cambiate, non necessariamente in maniera positiva. Ma la stabilità ritorna, e fossilizza nuovi privilegi, nuove élites.

Dell’Europa dei francesi colti del 1700, saltiamo all’Europa dei ricchi anglosassoni del 2000. Un’Europa, certo, più europea, più politica, anche se ancora sub-politica. Un’Europa che ancora non riesce a trovare una soluzione a quell’endemico conflitto tra le forze esagitate di nazioni millenarie. L’Europeismo del 1700 era una pura “visione dello spirito”. Col nobile tentativo euristico di narrare la complessità del concetto di Europa e la sua parziale instabilità, tuttavia, si corre il rischio dello scoglio della realtà: che per restare un’idea pura, rispettata nella complessità della sua trama ma per questo inaccessibile, essa sparisca come oggetto d’interesse per la mente degli europei, diventando il ricordo originale della mente di un nazionalista o il pensiero antagonista nella mente sovranista.

È questo il gesto storico richiesto ai tempi moderni del concetto di Europa: renderla realtà, ora che ce n’è bisogno, ora che lo scenario internazionale minaccia potenze molto più potenti di ogni singolo Stato europeo ma non ancora dell’intera Europa. L’Europa, che nel passato e stata solo un lungo sogno che ha prodotto un quadro bellissimo e illeggibile, si rivela ora quel ciondolo che abbiamo sempre avuto al collo senza sapere che fosse una chiave: una soluzione politica e sociale, l’Europa, alla terzomondizzazione degli Stati europei. Qualcuno diceva che non esisterà un’Europa finché non vi sarà una “poesia europea”, e Proust non sarà sentito come nostro allo stesso modo in cui lo è Dante. Ma la vera soluzione è molto più pragmatica, più pragmatica di quanto l’Europa non lo sia mai stata per la storia europea: la necessità di un’entità politica unita, piena e competitiva.


 

 

FONTI
L. Febvre, “L’Europa. Storia di una civiltà”, Donzelli Editore, Roma, 1999.

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