Il bianco-e-nero di Michelangelo Antonioni

Questo articolo non è che lo spunto di un immane tentativo, vale a dire quello di “parlare”, “discutere”, “chiacchierare” di Michelangelo Antonioni, ma senza la vana e boriosa pretesa di “capirlo”. Come è noto egli fu uno dei tre… quattro… sicuramente cinque autori fondamentali del cinema italiano del Dopoguerra. I tentativi di nominarlo il “regista di” qualcosa (la borghesia, il boom economico…) o di marcarlo con un’etichetta interpretativa (l’incomunicabilità, l’angoscia…) sono stati molteplici e tutti egualmente fallimentari. Stiamo parlando infatti di un autore che ha codeterminato la genesi del cinema italiano moderno, il Neorealismo, ma che nel tempo stesso del massimo fulgore di quella scena ha avvertito la necessità e costruito gli strumenti per un genere ulteriore, per un cinema senza genere e senza etichette, che, assieme a quello di Fellini e pochi altri ha dato vita ad una delle più complesse ed efficaci voci alternative nel cinema europeo.

Il Neorealismo – e pochi, a ciò che seguirà, si sentirebbero di obiettare – è stata probabilmente la vetta più alta (e ormai irraggiungibile) del cinema moderno, avendo avuto una portata poetica forse più rivoluzionaria persino dei grandi movimenti del cinema classico (prebellico) ed equiparabile solamente ai momenti successivi della nouvelle vague e del cinema giapponese degli anni ‘50, con poche eccezioni non sistematiche nell’opera di pochi autori occidentali e di qualche genio orientale.

Antonioni è stato al principio di questo straordinario monumento nazionale, e il suo rozzo ed impacciato cortometraggio Gente del Po (1943-1947) è tendenzialmente riconosciuto, affianco al lungometraggio di Visconti Ossessione (1943), come un timido e comunque capitale atto di fondazione del Neorealismo italiano.

Se il suo primo lungometraggio, Cronaca di un amore (1950), è ascrivibile a questo movimento culturale, sette anni dopo, con il suo primo capolavoro, Il grido (1957), Antonioni libera con un’incontinenza eccezionale e in parte inaspettata (stando allo stupore dello stesso Alain Resnais) le forze più proprie e originali della sua opera sulla spiritualità e sul linguaggio umano. Il film, ambientato nelle grigie e desolate campagne ferraresi, segue le vicende di Aldo (un fenomenale Steve Cochran), un neorealistico sottoproletario dalla giacca sdrucita costretto al vagabondaggio dopo che la compagna Irma (un’altrettanto brillante Alida Valli) coglie un’occasione per lasciarlo e sposarsi con un uomo più giovane di lui.

L’odissea di Aldo al di qua e al di là delle coste del Po, causata dall’improvvisa comparsa di un contendente (che per tutto il film rimane senza volto), lo porta a una vita nomade condotta tra gli amori occasionali – immancabilmente memori dell’assenza di Irma, e per questo fugaci – e l’eterno ciclo di una ricerca di punti d’appoggio e lavori quotidiani. L’iniziale compagnia della figlia – che non può non far pensare alla precedente flanerie dei Ladri di biciclette (1948) di De Sica – si rivela presto incapace di sopperire alla mancanza di Irma e si scioglie, lasciando da solo un cencioso ramingo ormai incapace persino di lavorare e di reagire alla quotidianità. L’operaio, lo sfruttato senza Patria né pace del Neorealismo lascia a terra il martello e si dissolve in uno spettro funereo, incapace di vivere, ma non per colpa dei drammi e della decadenza sociale, ma del collasso sentimentale e del rinnegamento personale.

Purtroppo non abbiamo modo di dilungarci ulteriormente sull’immortale poetica del Grido, ma ci basta considerare il suo ruolo fondatore nell’opera di Antonioni: il grido finale di Alida Valli inaugura la stagione che sarà nota come della “trilogia dell’incomunicabilità” (L’avventura, 1960; La notte, 1961; L’eclisse, 1962), vetta massima del periodo bianco-e-nero del regista, precedente la fase successiva dell’Antonioni più recente, altrettanto rivoluzionario e maestro impareggiabile del colore (Il deserto rosso, 1964; Blow-up, 1966;…).

Il grido comincia a gettar luce sull’impotenza linguistica e comunicativa dell’Italia post-bellica, che poco più tardi, nella trilogia, non sarà più vissuta da una triste e neorealistica comunità contadina, ma da una fresca, rampante e altrettanto triste borghesia da boom economico. Le campagne post-fasciste lasciano il campo ad una grigia e paradossale «società dello spettacolo», nei termini e nelle idee estremamente pertinenti di Guy Debord. E se Antonioni è il regista di questa società, non lo è in maniera classista ed antiproletaria – come hanno erroneamente creduto delle menti marxiste ma purtroppo superficiali –, poiché egli diventa il padrone geniale di un’alienazione borghese, l’emissario storico di una resa dei conti sulla pochezza dell’individualismo moderno, investigatore che non condanna, ma constata l’appartenenza della forma di vita consumistica al silenzio, all’angoscia e al vuoto. Pur se usate in un altro contesto, le parole di Deleuze sono estremamente pertinenti:

al soggettivismo complice di Fellini si può opporre l’oggettivismo critico di Antonioni.

L’avventura inaugura un cinema osservativo, in cui il movimento è ridotto al valore minimo, o comunque è già da sempre ricompreso nella spiritualità determinata da due fattori primari: la contemplazione e il senso della durata temporale. Il film ha in certo modo un valore di prefazione, in cui si pongono le basi per una critica silenziosa e probabilmente involontaria del cinema precedente (il cinema dell’azione, del movimento, dello spazio, dei dialoghi, persino del cinema neorealista, che parla sì del disagio umano, ma lo lega ancora strettamente alle forze storico-sociali) e in cui si inaugura un cinema che si svilupperà pienamente nel capolavoro successivo.

L’avventura è il film dell’azione delirante, che dunque non è più “azione” in senso vero e proprio, ma abitudinario e incostante vagabondaggio alla ricerca di qualcuno che non si vuole trovare, giustificando il sotto-vagabondaggio di una fuga romantica costantemente attanagliata dal fantasma del ricercato, dalla voce temporale e spirituale – che resta sempre acquattata dietro la macchina da presa, nel fuori campo che sempre compartecipa all’opera di Antonioni – che, come nel caso del Grido (il nuovo amante di Irma) parla di tradimento con un terzo e di impossibilità comunicativa nella coppia dei due originari. Solo che nell’Avventura il terzo, Monica Vitti, diviene il volto protagonista, o meglio, la costante umana prediletta dalle constatazioni antropologiche antonioniane. Ed è proprio in questo passaggio che ci aiuta La notte, nel capire come nella trilogia di Antonioni non possano esistere veri protagonisti, ma solo le forze negative della “fine della storia” e della demistificazione sentimentale. Anche qui, ci diamo lo slancio con un’osservazione di Deleuze:

Se siamo ammalati d’Eros, diceva Antonioni, lo siamo in quanto Eros stesso è malato; ed è malato non semplicemente perché vecchio o superato nel proprio contenuto, ma perché è catturato nella forma pura di un tempo che si lacera tra un passato già finito e un futuro senza uscita.

Potremmo dire che ne La notte, forse il film più bello della trilogia, il personaggio di Jean Moreau sia il vero “protagonista”, nel senso che è il personaggio riflessivo, l’unico nucleo di identità (e quindi di convergenza narrativa, attrazione emotiva, rispecchiamento identitario…) riconoscibile nel film. Ella è Soggetto, Io cosciente. Quello di Mastroianni è un personaggio principale, se si vuole, ma non un protagonista, nel senso scolastico del termine, giacché egli è una figura psicologica, comportamentale ed estetica partecipante al flusso cinematografico, un agente di transizione nella Transizione (divenire, durata del film), ma non un Soggetto, giacché non è cosciente e non è un io. La sua identità, come quella di Vitti, è un “dividuale” compartecipante all’identità necessariamente distribuita e olistica del film di Antonioni.

Ma qui arriviamo al punto: giacché il film non è fatto di semplici parti-pezzi, ma di forze compartecipanti a un principio di identità distribuita che non necessariamente coincide con l’identità di un personaggio, nemmeno l’identità di Jean Moreau coincide con quella del film, come invece l’identità risultata dal volto e dei vagabondaggi di Steve Cochran coincideva approssimativamente con quella del film.

Quindi, mentre Mastroianni e Vitti, nel loro ruolo essenziale e narrativo (l’intellettuale, il cinismo, la relazione extraconiugale, il futuro e il passato, etc.), sono partecipanti all’Identità suprema, Moreau è un personaggio cosciente, colei di cui riusciamo a vestire i panni, colei di cui riusciamo a condividere le incomprensioni, l’angoscia e il vagabondaggio. Ma questo non comporta che ella sia un “protagonista”, giacché non c’è esempio di protagonisti in senso proprio nella trilogia di Antonioni, e in particolare ne La notte: ci sono il tradimento, la depressione, l’intellettuale, la follia festaiola decadente, il senso di fine e la necessità di reinventarsi della borghesia milanese di quegli anni, la crisi spirituale degli intellettuali… ma il vero protagonista è il film stesso, o meglio, il cinema in quanto agente di una forza temporale e apocalittica che constata nei volti qualsiasi della borghesia l’assenza di un futuro e la dimenticanza del passato, e quindi la costrizione all’eterno presente del vuoto, del silenzio e dell’afasia.

L’avventura è il film delle azioni (reazioni, relazioni, corse…) avventate, ma piene. La notte è il film dell’immobilità o del moto rettilineo uniforme (secondo Galileo i due sono la stessa cosa). L’eclisse, invece, è il film dei movimenti spezzati, dei ripensamenti, delle esitazioni, delle interruzioni, pur se costantemente nella logica di un prevalere dello sguardo sul movimento. Posti semi-aperti e semi-chiusi. Vittoria (Monica Vitti) sta per uscire, poi non lo fa, l’altro se ne va, lei lo raggiunge, lei esce, lui la ferma e la accompagna, lei dice una cosa, ma nella seconda parte della frase si contraddice o chiude con un “oppure”. Indecisione: incomunicabilità, certo, noia, certo, ma tutto determinato “cineticamente” dall’indecisione.

Antonioni

Poi lo scoppio. Arriva alla borsa e c’è Piero (Alain Delon), e con lui l’avventatezza, l’iperattività, tanto che un minuto di silenzio per un morto pare un’eternità. Il contrasto incoerente ma consistente tra vuota ed esitante quotidianità e velocità iperattiva è determinato dalla costante narrativa della trilogia: la borghesia del boom economico, qui rappresentata dalla finanza (ne La notte c’erano gli industriali).

L’eclisse, nella sua attenzione al vuoto, all’architettura asettica e senza tempo di una città borghese, al grigio e al marrone laddove L’avventura si sbilanciava sul bianco e La notte sul nero, riesce a chiudere la trilogia nell’indeterminatezza più totale. Impedendo che “il cerchio si chiuda”, che la prima scena de L’avventura si ricongiunga con l’ultima, misteriosa scena de L’eclisse, Antonioni finisce di dichiarare che la sua opera non ha fatto che consegnare allo spettatore spazio-tempi qualunque, in un fascino in qualche modo neorealista, e che non ha fatto che produrre un piano di effettività cinematografica che non ha spiegato, non ha analizzato, ma semplicemente duplicato la realtà borghese accentuandone la continua mescolanza tra reale e immaginario, tra intimo ed esterno, tra nevrosi e collasso culturale.

L’opera in bianco e nero di Antonioni segue “l’andamento di un sogno o di un incubo“, secondo Deleuze. Ridurla alle etichette di “neorealismo interiore” o “cinema della borghesia” non rende conto dell’obiettiva, materica forza critica dei suoi grigi. Le architetture di un mondo senza tempo, le colonne che sorreggono quel mondo, i vuoti senza folla e senza senso, i vetri che impediscono i baci, la noia che impedisce di parlare… il cinema di Antonioni mette in mostra i nostri vagheggiamenti solitari attraverso un mondo senza storia, del quale non sappiamo se avrà degli esiti, ma nemmeno quali siano le sue origini. Così come Vitti e Mastroianni, falliremo nel rintracciare il senso di un mondo senza valore partecipando a feste noiose, consumando merce arida e non sapendoci più guardare negli occhi.


FONTI

G. Deleuze, L’immagine-tempo, Giulio Einaudi editore, Torino, 2017

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