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Il “cammino miracoloso” del Circolo Ohibò: intervista a Simone Castello

Il Circolo Ohibò è stato una pietra miliare della movida milanese, inutile negarlo o girarci intorno. Non è un caso infatti che l’annuncio dello scorso mese, in cui lo staff ha dichiarato la chiusura del locale, abbia suscitato numerose reazioni di stupore e di sconforto. Noi de «Lo Sbuffo» ne siamo rimasti particolarmente colpiti (avendo anche partecipato ad alcuni concerti al suo interno), e abbiamo quindi deciso di fare alcune domande al direttore artistico del locale, Simone Castello.

L’intervista

Allora Simone, come stai?

Ciao Dimitra e ciao a tutta la redazione de «Lo Sbuffo». Sto abbastanza bene, anche se quest’ultimo è stato un periodo tosto che mi ha – e ci ha – provato particolarmente. Però rimaniamo attivissimi: ci sono tantissime cose da fare al momento, tra cui lo spostamento dei vari concerti che erano previsti al Circolo Ohibò.

Partiamo dalle origini: com’è nato l’Ohibò?

Il Circolo nasce da un’associazione che è stata fondata nel 2012 (e di cui non facciamo parte). Nonostante la nostra gestione sia partita nel 2017, la storia che ci accomuna risale quasi agli albori, proprio pochi mesi dopo l’inizio dell’attività dell’associazione.

Infatti, come Costello’s, abbiamo iniziato a collaborare con l’Ohibò già nel 2013 con una rassegna (“Il Cielo sotto Milano”) che si svolgeva sul giovedì sera. Se non ricordo male, due giovedì al mese inizialmente e tutti i giovedì a seguire. Poi nel 2017 abbiamo assunto la direzione artistica, diventando anche responsabili della comunicazione di Ohibò e di fatto direzione generale del Circolo.

Se dovessi descrivere il cammino dell’Ohibò con una parola, quale sarebbe?

Io lo definirei miracoloso, sinceramente.

Sono successe delle cose a dir poco incredibili; ci sono episodi, come Mahmood che suona al Circolo Ohibò otto giorni prima di vincere Sanremo, che sono praticamente fantascientifici, no? In generale però si tratta di un percorso di tante piccole cose che, sommate assieme, hanno creato la straordinarietà di quel posto. Anche perché era rimasto praticamente l’unico club a fare musica dal vivo come attività principale (con cinque o anche sette concerti a settimana).

Se inseriamo poi la nostra attività in un quadro nazionale, in cui le attività legate alla musica dal vivo stavano diminuendo, destinandole a una volta a settimana, o al mese, nella maggior parte dei club, direi che la consapevolezza sull’eccezionalità di Ohibò aumenta. E questo non solo per l’importanza socio-culturale che il Circolo aveva assunto in maniera chiara e fondamentale, ma anche per il virtuosismo finanziario che era riuscito a sviluppare nel corso degli ultimi tre anni.

La frustrazione di non portare avanti un progetto così bello è sicuramente il sentimento più forte in questo momento. Tuttavia, pensando a ciò che è stato, quando hai capito che l’Ohibò stava diventando un punto fermo della musica dal vivo milanese?

Quando sono entrato nel 2017 l’avevo fatto con l’idea chiara che avesse un potenziale enorme, che non fosse stato valorizzato abbastanza. Inizialmente, quando invitavo le persone a venire, non raccoglievo consensi – la credenza diffusa era che fosse un posto ormai “finito” – ma già nel giro di tre mesi avevamo ribaltato questa percezione.

Dal secondo anno, poi, ci siamo poi resi conto di essere diventati un punto di riferimento importante. Questo sarebbe stato l’anno del consolidamento. Effettivamente, vedendo cos’è successo con la chiusura, ci siamo resi conto quanto il lavoro svolto fosse stato importante. A conferma di ciò, il post della chiusura (purtroppo) di Ohibò ha raggiunto il milione di persone su Facebook, lasciandoci increduli rispetto a tale portata. 

Proprio perché avete un pubblico così grande, – potremmo dire che l’Ohibò è diventato praticamente storico a Milano –  secondo te si potrebbe recuperare qualcosa con una raccolta fondi?

Come abbiamo già comunicato dalle nostre pagine social (parlo di Costello’s), purtroppo no; il problema è che non abbiamo più quello spazio. Il direttivo dell’associazione – di cui non facciamo parte come detto – ha deciso di risolvere consensualmente il contratto d’affitto, per non timore di incontrare nei mesi a venire problemi di natura economica. Sono stati veramente in tantissimi a proporsi per fare crowdfunding o cose simili, non oso neanche immaginare quanto si potrebbe raccogliere se consideriamo il reach che ha avuto la comunicazione della chiusura. Ma purtroppo non avrebbe senso farla, non avendo più lo spazio: significherebbe prendere dei soldi senza sapere come utilizzarli.

Pensi che questa chiusura sia dovuta anche alla mancanza di supporto da parte dello Stato?

Quello che penso è che non c’è stato neanche il tempo di prendere in considerazione del supporto da parte di nessuno. Prima che si potesse pensare a delle possibili soluzioni, il direttivo aveva già firmato la disdetta del contratto di affitto. Vedendo la mobilitazione popolare e l’interessamento mostrato anche dal Comune di Milano, pensiamo che una soluzione si sarebbe trovata. Poi il discorso riguardante la considerazione di musica e questo tipo di cultura a livello statale è molto ampio, e necessita un approfondimento ampio e delle decisioni e soluzioni radicali. Temo però non sia facile sovvertire e/o modificare l’approccio che si ha verso la cultura e tante altre cose fondamentali in Italia dopo gli ultimi 30/40 anni.

Ci sarà invece in futuro la possibilità che tu apra un altro locale?

Noi adesso stiamo lavorando per un dialogo con il Comune di Milano, intanto per presentarci e illustrare il lavoro svolto su Ohibò negli ultimi anni e per raccontare la nostra progettualità futura. Nel frattempo ci facciamo carico come Costello’s dei concerti che ci sarebbero dovuti essere – una settantina in totale – al Circolo.

In questo momento vogliamo lasciarci alle spalle questa situazione, prendendoci la responsabilità di portare avanti gli impegni che l’Associazione aveva assunto – quindi far svolgere tutti i concerti che erano stati programmati – e assolutamente tornare il prima possibile a dare a Milano uno spazio di aggregazione e di cultura, che faccia sentire tutti a casa.

C’era qualche evento che aspettavi particolarmente quest’anno?

Guarda, quest’anno era una stagione bellissima, quindi farei un torto a qualcuno nel menzionarne solo uno o due. Ero molto soddisfatto della programmazione e del modus operandi che stavamo creando con le agenzie; eravamo riusciti a dare un’identità e portare molta qualità e sostanza. Abbiamo fatto una stagione (parziale) molto importante anche in termini numerici. E la cosa bella è che la programmazione è sempre stata molto trasversale. Abbiamo fatto dai nomi anche più mainstream a cose molto di nicchia, mantenendo sempre un focus sulla nuova scena.

Per noi è un vanto e un privilegio aver fatto parte di questo pezzo di storia. Milano poi è una piazza molto importante per il lancio di progetti, perciò tutto questo pacchetto assume una valenza ulteriore. Direi che sono soddisfatto di tutti i concerti. Alcuni magari per gusto personale li aspettavo più di altri, come Kid Francescoli, gli Algiers, ad esempio. La prima settimana del lockdown avevamo tre sold out (tra cui questi due), quindi è stato abbastanza traumatico questo impatto con la realtà.

Che consiglio daresti a chi si trova in una situazione simile?

Sinceramente, sono cose che prescindono da qualsiasi consiglio, nel senso che in questo momento la realtà sta mettendo tanti di fronte a dei problemi oggettivi che è difficile superare. L’unico consiglio (ma neanche, direi un approccio) che mi sento di dare è di rimanere lucidi il più possibile, e di non abbandonare i propri obiettivi. Se si arriva quindi a un ostacolo come la chiusura, è una battaglia che si perde ma la guerra è ben più lunga e importante, ci saranno altri modi per portare avanti ciò che si vuole fare. Si deve quindi guardare al futuro e pensare a come continuare ad agire al meglio.

FONTI

In collaborazione con Lucrezia Costantino e Matilde Pasqualin

Materiale gentilmente offerto da Costello’s

CREDITS

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