Ritratto di Joe Biden: un centrista bianco contro Trump

Ho quasi raggiunto la deplorevole conclusione che il più grande ostacolo nel cammino del Ne*ro verso la libertà non è l’appartenente al White Citizens’ Council o al Ku Kluz Klan, ma il moderato bianco che è più devoto all’”ordine” che alla giustizia; che preferisce una pace negativa, che è assenza di tensioni, ad una pace positiva, che è presenza di giustizia.

Dr. Martin Luther King, Jr.

È purtroppo tramontato il doppiamente deluso “sogno Bernie Sanders”. La prima volta è accaduto per l’improbabile travestimento della guerrafondaia, poliziesca e rich-friendly Hillary Clinton da insincera e farisaica guerrigliera per le cause degli ultimi. Questa seconda volta il partito democratico (vale a dire i suoi azionisti di punta, i miliardari e il DNC, Democratic National Committee) ha aperto la strada per la corsa elettorale a un candidato non semplicemente inadeguato, non semplicemente compromesso, ma effettivamente ed evidentemente mammalucco.

Joe Biden – storico esponente di quella classe di “Nuovi Democratici” che, almeno da Bill Clinton in poi, ha gettato ogni conquista sociale degli USA del dopoguerra alla rapacità degli avvoltoi della finanza – ha macchiato il suo passato di adesione e di partecipazione a una politica “di sinistra” che ha vantato nel suo palmares la distruzione dei diritti dei lavoratori, la devastazione di istruzione e sanità, la ferocia imperialista in tutto il mondo e, più genericamente, l’immiserimento senza tregua dei più poveri e l’arricchimento ideologico e impunito dei sempre più ricchi.

Joe Biden, uno storico imprenditore del razzismo, del colonialismo, del lobbismo e dell’elitismo “made in Dem”, avrà un bel da fare per ripulire il suo passato, le sue scelte e le sue alleanze e sconfiggere l’infinitamente più focoso Donald Trump, e quindi per conquistare il benvolere di minoranze e classi lavoratrici affamati di ben altro che di un bianco sorriso centrista e di ipocrite promesse morali.

La “voce progressista” degli States, negli ultimi anni, è stata fatta da chi vinceva un Nobel per la Pace bombardando senza tregua il Medio Oriente, da chi faceva bei discorsi e si attirava il favore delle classi medie politicamente corrette seppur dimenticandosi di mettere in atto le sue promesse, con la scusa della “colpa degli altri”, e adottando con costanza una politica di compromesso con repubblicani e miliardari deludendo il sogno di una sanità per tutti, distruggendo le classi lavoratrici di ogni etnia e consolidando lo spregiudicato strapotere di banchieri, Wall Street e monopoli.

Parliamo ovviamente di Barack Obama, faro e guida di Joe Biden, del quale questi fu vice-presidente, e insieme al quale mise in atto una scandalosa risposta alla crisi del 2008, mettendo il patrimonio pubblico e i diritti/servizi che ad esso si associano sul lastrico – seguendo a puntino la ricetta liberista del rimediare ai crimini di pochi con i soldi dei molti –, lasciando impuniti i banchieri e gli investitori colpevoli secondo l’ipocrita e anti-democratica logica del “too big to fail”, gettando nel dimenticatoio dell’utopia il “Medicare for all”, le lotte per la racial equality e la battaglia per lavoro e welfare. Ciò rappresenta quella politica dem gestita dai think tanks e dalle confraternite dell’Ivy League (Harvard, Yale, Princeton, etc.) che rinnega ogni radice popolare della sinistra americana e agisce nelle logiche delle fantasie e dei “favorucci” degli influenti ideologi liberisti, e, in ultima istanza, delle classi dominanti ai quali gli oggi decadenti progetti economici di Hayek e Friedman promettevano un rinnovato strapotere e un insindacabile (scientificamente camuffato) privilegio.

Joe Biden, con la promessa che «il nostro standard di vita non cambierà», ripropone un centrismo riformista e amico dello status quo alla Obama, bollando come impossibile e radicale (laddove il drastico e l’energico sono bollati come “estremi”) ogni rivoluzione possibile contro le ingiustizie presenti, che inferirebbe un duro colpo ai sistemi di privilegio e sfruttamento e che garantirebbe a queste e alle prossime generazioni un mondo più equo, inclusivo e sostenibile.

Biden è contrario al Medicare for all, secondo la retorica repubblicana e democratico-liberale secondo cui il diritto culturale e di tutti ad aver salva la vita a spese dello Stato sarebbe scambiabile per il “diritto” (leggi: “privilegio”) delle agenzie assicurative, delle case farmaceutiche e degli ospedali privati di fare impresa sulla pelle di chi muore di malattie del terzo mondo perché non assicurato, di chi muore dissanguato perché non può permettersi migliaia di dollari di ambulanza e soccorso primario, di chi, come quasi tutti, soprattutto donne, neri, latinoamericani e (ad oggi, come pare dalle ultime notizie) la comunità LGBT+, non ha un contratto di lavoro che gli garantisca un’assistenza medica di base e di chi, rassegnato a una pensione inesistente o a un programma welfare umiliante, definisce la propria aspettativa di vita, la propria resistenza biologica (al cancro, all’età, alle malattie congenite, etc.) e il proprio diritto a un’esistenza piena a discrezione del censo, del sesso, del colore della pelle e del collocamento nella catena alimentare della società.

Biden è contrario al “Green New Deal sostenuto da personalità come Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders. Egli ritiene che un piano per un’America, per un mondo ad emissioni zero nel giro di trent’anni, sia ideologico ed irrealizzabile. All’utopia, dunque, Biden preferisce la moderazione, e quindi la condanna alla distopia, all’apocalisse di una Terra consumata dal Global Warming in nome, ancora una volta, della “libertà d’impresa” di 100 aziende che producono il 71% delle emissioni globali. Dietro la logica del green-washing di McDonald’s che rinuncia alla plastica e dell’ipocrisia eco-friendly dei distruttori dell’Amazzonia, dietro la rappresentazione bislacca dei problemi del mondo che vanno risolti “ciascuno per conto suo”, colpevolizzando l’umile cittadino senza presentargli alternative a prezzi politici, ciascuno facendo la differenziata e limitando i consumi, pur mantenendo intatta la logica consumista a dominio della nostra cultura e mantenendo impuniti i produttori del 99% dei disastri del presente climate change; dietro tutto questo, insomma, c’è il solito interesse di una classe di monopolisti senzadio ai quali Joe Biden non rischia, nemmeno nei sogni più puri, di schiacciare le scarpe.

Joe Biden è contrario alla nazionalizzazione delle spese per l’educazione, impedendo di fatto che quell’altrimenti ipocrita modello americano della “meritocrazia” si realizzi anche al di fuori dell’1% bianco (ammesso che la bramosia di questo corrisponda a meritocrazia) e permetta a chiunque, ai poveri, alle minoranze, agli sfruttati e agli umiliati di sognare un futuro pienamente fortunato per i propri figlie e figli, un futuro al di là dell’esclusione di classe e del pregiudizio sociale e razziale.

Joe Biden è contrario a “defound the police, all’intervento politico e costituzionale per sradicare le forze incontrollabili di una polizia eccessivamente ricca e illimitatamente libera di abusare degli esseri umani, neri e non. Joe Biden è contrario a fermare la guerra nel mondo, principale veicolo di sfogo per la dark economy americana di armaioli e petrolieri (tra gli altri). Joe Biden, di fatto, è contrario a tutto ciò che rappresenti una svolta radicale in grado di sovvertire gli attuali sistemi di ingiustizia (legale, morale, commerciale, etc.) e fonda la sua stessa campagna elettorale su un assordante e imbarazzante principio di contrarietà: contro Donald Trump, a difesa di un sistema che di fatto, al di là delle urticanti pagliacciate e dell’ignobile incapacità dell’attuale presidente, è lo stesso che il suo avversario difende e rinforza da quattro anni.

Come scrivono Demetri Sevastopulo e Courtney Weaver sul Financial Times, Biden sta tentando di rendere le prossime elezioni un «referendum sul presidente», cercando di consolidare un consenso sulla debole e passiva retorica dell’”almeno non sono Trump” e dedicandosi, dialetticamente e mediaticamente, a quella che in un precedente articolo abbiamo definito la “strategia dell’opossum”: fingersi morto, mantenere un profilo basso e limitandosi a rispondere in maniera ovvia e minimale (di certo non problematica) alle scempiaggini criminali di Trump. Quest’ultimo sta vedendo gran parte del suo elettorato volatilizzarsi, essenzialmente per due motivi: perché la sua campagna si basa sugli stessi temi e sulle stesse oscure, torbide e razziste promesse elettorali del 2016, in larga parte mostratesi vane o altrimenti dannose; e perché la sua totale inettitudine di fronte ai problemi sanitari ed economici causati dalla pandemia e dalle proteste generate dalla morte di George Floyd hanno contribuito a dipingerlo non solo come un instabile, violento, incapace narcisista, ma anche come un codardo, pericoloso ed anti-storico razzista.

Biden, trincerato nella sua dimora in Delaware, dimostra di non saper sfruttare i vuoti elettorali generati dalla conversione anti-trumpiana dei lavoratori bianchi e delle donne diplomate, lasciando senza entusiasmo ideologico e politico chi probabilmente ritornerà a Trump quando e se l’economia ritornerà approssimativamente alla normalità, e lasciando dunque gioco facile all’attuale presidente per riciclare la retorica doppiamente bugiarda del “grande imprenditore e (quindi) grande statista”.

Gli USA di oggi, quelli del Black Lives Matter, quelli della “gentrification” e dei sobborghi dimenticati, quelli della polizia violenta e delle disuguaglianze sconcertanti, senza precedenti, non hanno bisogno di chi, come ricorda Thomas Frank sulle colonne del The Guardian, ha deregolamentato Wall Street come sacro compito ideologico, chi ha condannato le regioni industriali (da cui pure egli viene) e le classi lavoratrici a una forzosa ed ingiusta austerità, chi ha reso insostenibili le spese scolastiche e universitarie e chi, soprattutto, “visti i tempi”, ha contribuito a trasformare gli USA in uno Stato penale, costruito sulla «deliberata, state-sponsored crudeltà», sulla «discriminazione razziale», sull’imprigionamento incondizionato degli afroamericani, sul finanziamento illimitato dei dipartimenti di polizia e sulla massiccia costruzione di prigioni. Biden stesso, al tempo, si è vantato di come “ogni grande disegno di legge su crimine” sia passato per le sue mani.

Sebbene oggi egli provi senza tregua a nasconderlo, questo passato è evidente a tutti. Il ritratto che Frank fa di Biden tenta di essere ottimista, addirittura troppo lusinghiero, cercando di leggere in questo confuso e silenzioso “altro da Trump” un’alternativa votabile, seppur non in maniera appassionata: egli proviene dalla middle class industriale, e non si farebbe mai bello degli aneddoti snobistici dell’Ivy League, quella dei Clinton e di Obama, non chiamerebbe mai gli elettori di Trump “deplorevoli” e non rinuncerebbe mai a prescindere, come invece raccontava Hillary Clinton, alla classe bianca lavoratrice e ai valori proletari della sinistra. Questo, almeno, in teoria, visto che sebbene Biden abbia avuto delle piccole vittorie nel settore pubblico con la garanzia di paghe decenti e diritti (persino sindacali!), comunque la sua storia politica principale parla per lui e le belle parole che pronuncia con tanta banalità non risolvono i problemi e lo lasciano essere “il migliore amico di banchieri e poliziotti. Noi abbiamo l’empatia; loro hanno il potere”, scrive Frank.

joe biden

Il debole e indifferente “Middle class Joe”, come voleva farsi chiamare, non resiste alla ridicola e realistica immagine trumpiana dello “Sleepy Joe”: tontolone, affogato nelle gaffe, nei vuoti di memoria e nelle incoerenze, strategicamente incapace di pensare e perseguire una politica che porti ad un reale cambiamento. Come può rappresentare un effettivo cambiamento chi, come scrive Kirsten West Savali, dimostra amicizia e condiscendenza persino con i più spregiudicati suprematisti bianchi?

È per questo che Trump vincerà quasi sicuramente, checché ne dicano le indiscrezioni statistiche. E nemmeno ci saremo persi nulla di che, noi occidentali, ma al contrario: avremo ridato, per la seconda volta in cinque anni, un volto grottesco, maltruccato, delirante e insostenibile a un male che, pur se con forme ben più educate, comunque sarebbe giunto come un fato. La fatalità del male che da decenni travolge gli USA a difesa di un letale status quo, stavolta rappresentato dalla falsa alternativa Biden-Trump, risulta solo più riconoscibile, ma nei fatti non diversa, dalla tremenda, infamante ed inumana riconferma del grottesco presidente.

C’è un letargo ideologico che, dagli anni Ottanta a questa parte, costringe persino chi ingenuamente si professa progressista ad illudersi che non esista un’alternativa a questo capitalismo dei ricchi a trazione dei poveri, dove la politica si limita al ruolo di maggiordomo e facilitatore e dove le forze sociali si arrendono ai colpi della malainformazione (spesso propugnata da coloro che se ne chiamano “professionisti”), del consumo di distrazioni annichilenti e della tifoseria sragionata nei confronti di idoli insignificanti (per la lotta contro i veri problemi del mondo) e battaglie superficiali. Questo letargo, questo lungo sonno in un mondo disastrato, di cui spesso non riusciamo o non siamo messi nelle condizioni di comprendere la distopia, ci condanna all’abbaglio di fronte ai sorrisi sbiancati dei finti “amici dei giovani”, “del progresso” e “delle minoranze”, sorrisi che si chiudono e cuciono la bocca quando una vera voce progressista chiede di rinunciare a difendere il privilegio ed iniziare (alla buon’ora, in un mondo che si professa democratico) a combattere per gli sfruttati, gli ultimi e le minoranze– vale a dire per la maggior parte di noi.


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