Fast Fashion. La schiavitù del consumo

Il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore

Pier Paolo Pasolini

In Spagna nel 1975 Amancio Ortega apre il primo negozio Zara. È considerato l’inizio di quella che oggi chiamiamo fast fashion. L’imprenditore spagnolo agisce in nome di una moda democratica, che permetta a tutti di poter indossare abiti da passerella a prezzi contenuti. L’intento è nobile, il risultato è catastrofico. 

Nel giro di pochi anni nuovi brand di fast fashion spuntano come funghi, sempre con prezzi più bassi e con capi più numerosi. H&M, Bershka, Pull and Bear, Primark e Stradivarius sono marchi da cui abbiamo comprato almeno una volta, quando non costruiscono la gran parte del nostro guardaroba. 

Il meccanismo dietro il fast fashion è semplice. Produrre sempre di più, sempre più velocemente, a prezzi sempre più bassi. Dalla tradizionale bipartizione collezione autunno/inverno e collezione primavera/estate si è passati ad avere fino a 52 collezioni diverse, una per ogni settimana.

Ma com’è possibile alimentare una macchina così mostruosamente enorme? La rapidità è un fattore essenziale se pensiamo che il fast fashion si basa sulla creazione di capi che si rendano volutamente obsoleti in breve tempo. I capi della moda istantanea nascono per essere usati meno di una stagione per poi essere sostituiti da nuovi modelli di tendenza. Oltre alla rapidità il fattore più importante è il costo, che deve essere alla portata di tutti. 

Ecco quindi che la prima vittima del fast fashion è la qualità. Ovviamente se i capi devono durare meno di una stagione non è necessario che siano ben fatti. Non sono ideati per “durare una vita”, quindi i materiali sono spesso scadenti e la manifattura approssimativa. Il risparmio sul materiale risulta in conseguenze ben più gravi della breve durata dell’abito. Infatti per contenere i costi si utilizzano tessuti sintetici come poliestere e nylon, derivati dal petrolio. Nel caso utilizzino fibre organiche, come il cotone, per contenere i costi si rivolgono ad aziende che ne producono in grandi quantità, inondando i campi e i dintorni con pesticidi. Tessuti riciclati e fibre organiche prodotte senza l’utilizzo di sostanze tossiche non sono contemplati, visto il costo più elevato.

L’impatto ambientale del fast fashion non si limita al materiale, ma si estende in tutto il processo di lavorazione. La colorazione dei tessuti è un ulteriore problema. I coloranti naturali sono costosi, dunque vengono usati quasi esclusivamente coloranti chimici. Queste sostanze non si attaccano completamente all’indumento durante il processo di colorazione. Il 10-15% delle tinte è rilasciato nell’ambiente. Se consideriamo che una sola t-shirt richiede in media 16-20 litri di acqua durante la colorazione non saremo stupiti nel sapere che l’industria tessile globale rilascia nel sistema idrico circa cinquantamila tonnellate di coloranti l’anno.

Nel 2011 una grossa quantità di coloranti di scarto fu immessa nel fiume Jian, nel nord della Cina, fino a farne diventare rosse le acque. L’effetto sull’ecosistema fu devastante. Tutti i pesci del fiume morirono e gli abitanti della zona, che mangiavano prodotti coltivati nei campi irrigati dal fiume, riscontrarono gravi problemi di salute. 

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I coloranti non sono nocivi solo se dispersi nell’ambiente, ma anche a contatto con la nostra pelle. Queste sostanze vengono assorbite dai nostri pori, specie con il caldo e il sudore. Le ricerche dimostrano che queste tinture sono cancerogene e possono causare allergie, dermatite e problemi respiratori. Questi effetti sono particolarmente devastanti per i lavoratori tessili, soprattutto se non protetti, ma possono ripercuotersi anche su chi li indossa.

Un altro metodo per contenere i costi riguarda la manodopera. I capi di fast fashion sono prodotti in paesi in via di sviluppo in cui i lavoratori vengono sottopagati e sfruttati. Spesso si tratta di una vera e propria schiavitù. I lavoratori, per la maggior parte donne e minorenni, vengono rinchiusi nelle fabbriche e in dormitori adiacenti, sottoposti a orari estenuanti, con paghe ben al di sotto della soglia minima. Le condizioni di lavoro sono estremamente pericolose.

Il 24 aprile 2013 a Savar, in Bangladesh, il Rana Plaza, edificio commerciale contenente una fabbrica tessile, crollò, provocando 1129 morti e circa 2515 feriti. I proprietari della fabbrica avevano ignorato l’ordine di evacuazione dato dalle autorità, causando la strage. La fabbrica tessile produceva capi di abbigliamento per Primark e Inditex (multinazionale che possiede Zara, Bershka, Stradivarius, Pull and Bear e Oysho). In questi casi i brand di fast fashion non vengono coinvolti, dal momento che non sono possessori delle aziende di produzione ma si limitano a utilizzarne i servizi. Con questa manovra si liberano da qualsiasi condanna legale.  

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Per quanto riguarda il design, abbiamo detto che lo scopo del fast fashion è portare la moda dalla passerella ai negozi. Nella maggior parte dei casi i capi di abbigliamento di questi brand sono delle repliche esatte, ma di qualità inferiore, di modelli di altri marchi. Questa pratica non è particolarmente nociva per le grandi marche, dato che si rivolgono a una clientela diametralmente opposta, ma può rivelarsi fatale per i marchi indipendenti. Sono molti i casi di artisti indipendenti che si sono visti derubati del proprio design da aziende di fast fashion che lo rivendevano a prezzi molto più bassi, creando una concorrenza insostenibile. In questi casi i “ladri di idee” rimangono per lo più impunti, salvo l’occasionale e futile biasimo comune.

Infine la filosofia del fast fashion produce un ultimo effetto collaterale. Si tratta dello spreco, sia da parte del consumatore sia da parte dell’azienda stessa. Una volta passato di moda, il capo di abbigliamento acquistato viene presto sostituito e buttato via, raramente donato o riadattato. A differenza dei vestiti del passato, fatti per mantenere il loro fascino nel tempo, i modelli di fast fashion non sono più desiderabili appena passano di moda, non riescono quindi ad entrare nel circuito vintage e di seconda mano. Le aziende stesse non hanno alcun interesse a conservare i capi non acquistati e rimasti in magazzino, quindi li eliminano, producendo un’immane quantità di rifiuti. In media ogni anno vengono prodotti 150 miliardi di capi di abbigliamento, molti dei quali diventano rifiuti entro la fine dell’anno.

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Dopo aver constatato i fatti e, si auspica, essere rimasti inorriditi, ci chiederemo come poter cambiare le nostre abitudini di consumo. È possibile sfuggire alla trappola del fast fashion senza spendere una fortuna né rinunciare all’estetica? Fortunatamente lo è e le strade sono molteplici. La soluzione più ovvia è preferire la qualità alla quantità. Il minimalismo è un caso esemplare. Invece che farsi prendere dalla foga di comprare venti capi a prezzi sospettosamente bassi basterà comprarne dieci o cinque di buona qualità, badando bene a controllare l’etichetta, preferendo fibre naturali. Per lo stesso prezzo avremo vestiti che dureranno più a lungo e in men che non si dica ci ritroveremo con un armadio sostenibile e altrettanto bello. 

Un’altra via, sempre più percorsa, è quella dell’abbigliamento vintage. I nostri predecessori erano più avanti di noi in questo campo e hanno creato vestiti ancora attuali. Comprare vintage non solo non ha alcun impatto sull’ambiente, ma permette di avere uno stile unico e particolare. L’unica pecca è che alcuni capi vintage, sopratutto i più graziosi, spesso sono abbastanza costosi, specialmente ora che la domanda sta crescendo. Con un po’ di fortuna e molta pazienza si possono trovare pezzi unici a buon prezzo, magari prendendo d’assalto l’armadio delle proprie madri e, perché no, delle nonne. 

Per le occasioni speciali, per cui spesso compriamo abiti che indossiamo una volta sola per poi confinarli nei profondi meandri del nostro guardaroba, una possibilità che si sta affacciando è quella del noleggio di vestiti. L’ultima via, la più impervia ma forse la più accattivante, è quella di imparare a confezionare da sé i propri vestiti. Oggi quasi nessuno lo fa più e sembra una follia, ma un tempo tutte le donne erano in grado di rammendare e modificare i propri abiti, quando non di crearli da zero. Su YouTube si stanno moltiplicando i canali che si dedicano alla sartoria fai da te. 

Dopo aver dato queste piccole soluzioni è giusto precisare che passare repentinamente dal comprare solo fast fashion al non comprarne affatto è alquanto difficile. Questo però non deve essere una scusa per non provarci. Come il fast food anche il fast fashion va preso in piccole dosi, se non si riesce ad evitarlo del tutto. In una società capitalista e consumistica quale è la nostra si fa sempre più necessario diventare acquirenti consapevoli, non più vittime passive delle grandi multinazionali, ma protagonisti attivi del cambiamento.


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