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Le sculture filiformi di Giacometti rivelano il volto interiore dell’uomo

Dalle avanguardie storiche di inizio secolo alle sperimentazioni ardite del secondo dopoguerra: l’arte del Novecento ci ha regalato un mosaico eterogeneo di forme. Come non ricordare i liberi accostamenti di segni, linee e colori dell’Astrattismo, che risvegliano quelle risonanze interiori dimenticate? O ancora, le forme allucinate e distorte di Munch, voce di un disagio esistenziale che, con la stessa intensità di quegli anni, torna a bussare alla nostra porta? E che dire della follia dei surrealisti, i creatori di forme per eccellenza? E che fosse realtà o follia poco importa.

Così come nella pittura, l’originalità delle forme si esprime anche nella scultura. Ce lo dimostra Alberto Giacometti, audace interprete del clima di sfiducia e pessimismo esistenziale che avvolge l’Europa del dopoguerra. Giacometti adotta soluzioni originali e rivoluzionarie rispetto al passato. Scolpisce, nei suoi modelli, la tensione che attraversa la realtà che lo circonda.

Dall’infanzia alle prime sculture filiformi
Alberto Giacometti

Nato in Svizzera nel 1901, Alberto Giacometti trascorre un’infanzia felice nella sua casa di famiglia nel Cantone dei Grigioni. Il padre Giovanni e l’amico Cuno Amiet guidano i suoi primi passi nelle esperienze artistiche. Alberto è alla ricerca di uno stile che, facendo tesoro della lezione del passato, possa trovare un’identità ben definita.

Segue la scia del Cubismo e del Surrealismo, tra ripensamenti, dubbi e ripartenze in ogni direzione. Negli anni Quaranta, poi, inizia una ricerca estetica che lo condurrà alla realizzazione di sculture filiformi e scheletriche. Figure in bronzo che sono sul punto di dileguarsi, come se lottassero costantemente per la sopravvivenza.

L’anatomia deformata rivela l’influenza dell’arte primitiva e della plastica etrusca, alle quali Giacometti guarda con interesse nel corso di tutta la sua attività. L’esile massa corporea delle sue figure è spesso compensata dalla vibrazione ottica prodotta dalle superfici ruvide e grumose. Queste appaiono come magma lavico improvvisamente solidificato.

Tre opere per raccontare la drammaticità e la precarietà umana postbellica

Tra i busti più celebri da lui realizzati spicca la Grande testa di Diego, che ritrae il profilo del fratello. La visione frontale e laterale sembrano disgiunte tra loro: il volto assume le sembianze di una lama affilata che fende lo spazio nel quale è immersa. La forma della testa sembra compressa dall’aria che la circonda, come se fosse svuotata dall’ultimo respiro. La connota una linea discontinua che la separa dallo sfondo. La drammaticità dell’espressione dell’uomo è acuita dalla bocca semiaperta, dalla quale è sul punto di uscire un grido di disperazione, sintomo dell’inquietudine che turba l’uomo contemporaneo.

Giacometti
Alberto Giacometti, Uomo che cammina (1961)

Anche le Donne di Venezia sono attraversate da un’estrema tensione. La loro superficie è solcata da segni che le percorrono dalla testa ai piedi, saldamenti ancorati a un terreno dal quale risulta difficile distaccarsi. E se le donne si fermano a riflettere nel loro stato di precarietà, l’uomo, anche se a stento, prova a muovere qualche passo verso l’ignoto. Cerca della sua essenza e di quella linfa vitale che scorre in ogni essere vivente. Così l’Uomo che cammina va avanti per la sua strada, nella sua fragilità e nella sua imperfezione, verso l’alba di una bellezza della quale conserva solo un vago ricordo.

L’atemporalità del pensiero filosofico in una mostra temporanea

Le sculture di Giacometti sono figure gracili e afflitte, corpi emaciati che sentono il peso di due guerre mondiali. Le stesse che hanno tolto la vita a decine di milioni di persone in lotta contro ogni forma di devastazione. Così i corpi sembrano alberi spogli dalla loro folta chioma, ma con i rami protesi verso la luce, nella speranza di ritrovare al più presto la forza di rinascere.

Definito da Sartre un grande interprete dell’esistenzialismo, Giacometti concepisce l’arte come un luogo di confluenza nel presente di passato e futuro. È in quest’ottica che l’atemporalità della figura umana si prospetta come modello di rappresentazione dell’arte di tutti tempi.

Tutto si trasforma in una forma tesa, – scrive Giacometti – di una violenza estremamente contenuta, come se la forma stessa del personaggio andasse al di là di quel che il personaggio è realmente, ossia soprattutto un nucleo di violenza.

Fino al 10 gennaio 2021, il Centro Culturale di Chiasso ospita una retrospettiva sulla produzione grafica di Giacometti, con oltre 400 fogli, dalla xilografia all’incisione a bulino, dall’acquaforte alla litografia, con immancabili disegni e fotografie. Il titolo della mostra è Grafica al confine fra arte e pensiero. Essa testimonia come le opere dell’artista svizzero, indipendentemente dalla tecnica di cui si avvale, siano un modo privilegiato per conoscere la realtà, tramite lo studio dell’arte di ogni epoca.


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