Silvia

Silvia Romano: la ragazza di fuoco

Mi offro volontaria! Mi offro volontaria come tributo!

Un grido si leva alto nel grigio cielo del Distretto 12. A squarciare il cupo silenzio che avvolge le ordinate file di ragazzi presenti alla mietitura. È il grido di una giovane donna dai capelli scuri. Lei corre, allontana chi tenta di fermarla, abbraccia la sorella. Il suo destino è l’arena, un luogo di morte, di guerra fra sottoposti. Un luogo pronto a trasformarla, a spremere la sua moralità in cerca di spettacolo.

Nessun grido, nessun proclamo. Non c’è sceneggiatura o cinepresa di alcun tipo. La generosità, nel mondo reale, passa spesso inosservata. Silvia si offre volontaria. Per aiutare, tendere una mano all’Africa e agli orfani di Malindi. Ad attenderla un’arena, la sabbia di un villaggio sperduto, abbandonato al suo destino. La sabbia di una terra sfruttata per secoli e poi armata per una guerra fra poveri. Una guerra tra eserciti di fratelli, nel nome dell’interesse di terzi.

Resta Viva

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Il respiro affannoso, la gamba dolorante per l’ustione. Katniss non può rallentare, i tributi le sono alle spalle, da tempo attendono di trovarla per poterla eliminare. Katniss non può fermarsi, trova un albero e vi si arrampica cercando rifugio tra le sue verdi fronde. Sola, ferita e destinata a morire, sotto gli occhi dei compaesani e dei viziati omuncoli di Capitol City. Ma un aiuto giunge inaspettato. Un piccolo paracadute recante una medicina, omaggio degli sforzi del suo mentore e della voglia di spettacolo dei suoi carcerieri.

Silvia non è circondata da telecamere. Almeno non all’inizio del suo viaggio. Il suo sorriso, la forza di volontà che l’ha spinta in terra d’Africa non sono oggetto di grandi riprese. Nessuno è interessato ad osservarla perché il bene, nel mondo reale, non fa notizia. Il suo volto compare in televisione solo dopo il rapimento. Mesi di solitudine, di paura, mesi in cui Silvia si sforza di restare viva. Il mondo non può inviarle aiuti, ma solo provare a trattare la sua liberazione. Nel frattempo l’esposizione mediatica continua a crescere. Silvia esce dall’anonimato e viene esposta ai pareri di chi, dal comodo divano della propria abitazione, inizia a esprimere giudizi su una situazione che non conosce.

Il bacio di Katniss

Katniss corre, ansimando, cerca Peeta, lo cerca disperatamente. L’annuncio dello stratega risuona ancora nella sua testa. Due vincitori, non più solo uno. Due vincitori, ma provenienti dal medesimo distretto. Peeta è ferito, nascosto tra le rocce in attesa della morte. I due si rifugiano in una grotta, ma il giovane uomo ha bisogno di un aiuto vero, un farmaco che possa salvargli la vita. A Katniss non rimane che una scelta. Un bacio, una storia d’amore fittizia, un regalo per gli spettatori. L’unico appiglio a cui aggrapparsi nella disperazione.

Non abbiamo un libro, un film, alcuna spiegazione. Non c’è alcun regista che possa spiegarci cos’è accaduto, né movimenti di macchina o indizi cinematografici che possano aiutarci a comprendere la situazione. Anche Silvia si aggrappa a qualcosa. Chiede ai suoi rapitori il Corano, forse l’unico testo a cui possa accedere, l’unico strumento rimastole per cercare di resistere. Silvia si converte, cambia il proprio nome, rinuncia alla sua identità per costruirsene una nuova. Forse il suo è un bacio di Katniss, forse no. La sola cosa che è data sapere è che queste sono scelte prese nell’arco di diciotto mesi di prigionia. Mesi in cui Silvia cambia fede, mesi in cui Silvia diventa Aisha.

Applausi e insulti

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I giochi sono terminati. Katniss ha vinto e insieme con Peeta sale sul treno ad alta velocità che la riporterà a casa. Ad attenderla il suo distretto, gli applausi della gente che ha pregato per lei, che l’ha sostenuta e fino all’ultimo ha sperato nel suo ritorno. Katniss sorride, ancora profondamente turbata, ma finalmente felice di scorgere in lontananza il volto della madre e della sorella che la aspettano ormai da troppo tempo. A chilometri di distanza, però, i suoi carcerieri sono scuri in volto, preoccupati della fiammella di speranza accesasi nei distretti.

Silvia ha vinto, l’Italia ha vinto. Un aereo riporta alla sua famiglia la giovane volontaria, finalmente libera, finalmente a casa. Ad attenderla, tuttavia, non ci sono solo volti felici. I veri carcerieri, che Silvia pensava di essersi lasciata alle spalle, la attendono nel suo paese con insulti, becere considerazioni e improperi inutili. Urlano di soldi sprecati, di problemi legati al terrorismo, problematiche che, come al solito, esulano dalle loro competenze. Discorsi di odio e rabbia, perché a quanto pare il sorriso di un sopravvissuto è decisamente più fastidioso della morte di un innocente.

Sarebbe bello ora poter parlare con un immaginario regista degli eventi. Chiedergli che cosa accadrà nel prossimo capitolo, sapere se ci sarà un lieto fine. Questo non è possibile. Solo una cosa sappiamo. Con ogni probabilità Silvia non diventerà il volto di una rivoluzione, né tenterà di scardinare la Capitol City che stiamo erigendo giorno dopo giorno nelle nostre coscienze. Forse a poco a poco si disperderà in un nuovo mare di polemiche, verrà dimenticata o accantonata perché fuori moda. Ma lei tornerà in Africa. Tornerà in quell’arena, in silenzio, senza clamore. Tornerà forse in abiti diversi, ma rivestita dello stesso fuoco che l’ha spinta a lottare per una giusta causa.

FONTI

Ansa.it

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