Un fallimento circostanziato: quando l’arte può fallire?

Nel linguaggio comune, la parola fallimento viene impiegata per descrivere una condizione di ineccepibile decadimento. Come una specie di movimento che procede dall’alto al basso, da una posizione valutabile come buona a una cattiva.

È lo stesso effetto retorico che producono parole come depressione, degrado, decadenza e simili. Sono termini che, quando vengono impiegati, evocano il senso di una violenta caduta,  un movimento qualitativo da una condizione giusta a una sbagliata, da una situazione bella a una brutta, e così via.

Diventa però interessante soffermarsi sul rapporto tra il significato della parola fallimento, così pesante anche nella sua pronuncia, e i contesti in cui essa viene utilizzata. Ci si rende conto che il campo semantico di riferimento, nell’uso corrente, è strettamente connesso alla morale, all’etica, alla politica e all’economia.

Si pensi a tutte le volte che il termine fallimento viene utilizzato. Si parla, ad esempio, di fallimento di un’azienda, per indicare che l’impresa non ha più risorse economiche per perseguire i propri obiettivi aziendali e i propri interessi. Oppure si può dire anche che una persona è fallita, per esprimere, anche in questo caso, l’incapacità di quella persona di raggiungere un fine, un interesse o una vocazione.

Da questi due semplici esempi emerge che il termine fallimento non può che determinare, nella maggior parte dei casi, un giudizio di valore, o meglio un giudizio di utilità.

L’infallibilità dell’arte

Ora, esiste un contesto che, nella sua forma più pura e autentica, esula tanto dalla morale e dall’etica, quanto dall’economia e dalla politica. È l’arte. 

Con questo, non si sottintende che l’arte non possa essere impiegata per scopi e interessi pratici. Attività quali il mercato dell’arte o fenomeni come il mecenatismo sono tutti esempi in cui l’arte assume apertamente e deliberatamente funzioni pratiche, utilitaristiche, economiche e politiche.

Quando però si parla di arte, intesa nel suo senso più puro e autentico, si sta dicendo questo: l’atto stesso di contemplazione estetico-artistica, che concerne la mera osservazione e che opera tanto nell’ascolto di una sonata di Beethoven, quanto nella contemplazione di una tela di Dürer, è una pratica che si emancipa totalmente da un interesse pratico.

L’opera d’arte, come scriveva Kant nella Critica al giudizio, implica un  disinteresse estetico. Si tratta di un atto, quindi, che lo spettatore compie senza fini secondari. Non si domanda se sia utile a qualcosa o se lo stesso oggetto che sta contemplando (un dipinto, una statua, un affresco ecc.) possa servire a qualcosa. 

Fallimento
Evaristo Baschenis, Natura morta di Strumenti Musicali, 1670 ca., Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts

Per esempio, quando si osserva una natura morta, non ci si domanda se quegli alimenti siano lì per essere mangiati o venduti al mercato. Oppure se quegli strumenti siano lì per essere suonati da un musicista o venduti da un liutaio.

A questo punto, escludiamo i contesti in cui l’arte riveste funzioni pratiche e prendiamo in esame la sfera artistica in sé e per sé. Si apre così una questione molto interessante intorno al concetto di fallimento. Se si considera il fallimento come un termine che descrive l’incapacità di raggiungere un fine e un interesse utile e pratico, può allora l’arte fallire? E se sì, quando e in quali circostanze l’arte fallisce? 

A ben vedere, in virtù delle considerazioni fatte sull’atto estetico-contemplativo, pare che l’arte sia in qualche modo infallibile, proprio perché non è destinata a funzioni pratiche. 

Ma allora, se l’arte esclude il fallimento, nel senso in cui questo termine è stato fin qui utilizzato, perché si parla di artisti migliori e  artisti peggiori? Perché la storia dell’arte consacra i primi e non i secondi? 

Fallimento
Michelangelo, Giudizio Universale, 1536-1541, Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano

Seguendo la logica fin qui adottata si dovrebbe ammettere che tutti gli artisti sono sullo stesso livello. Quindi, che nessun artista è più abile di un altro, che nessuna opera è migliore di un’altra e così via. Ma la storia dell’arte, come ben si sa, tende a distinguere chiaramente quelli che, nel corso dei secoli, si sono rivelati grandi artisti da quelli che invece vengono considerati artisti minori. I primi riescono nella loro impresa, i secondi falliscono, anche se parzialmente. 

Anche in questo caso però, distinguere un grande artista, infallibile, da un artista minore, non significa affermare che il primo abbia raggiunto un obiettivo pratico mentre il secondo no. Questo perché l’arte non tende a questa vocazione e mai lo farà,  almeno finché conserverà un po’ di quella sua autonomia che la separa dalle attività di tutti i giorni.

La vocazione dell’arte, e degli artisti in particolare, è un’altra, ben lontana da finalità pratiche e contingenti. È più alta e nobile, non valutabile in termini monetari o economici. La vocazione dell’arte è quella di dare una forma visibile allo spirito di un’epoca. 

Forse è questo il criterio con cui si distinguono i grandi e minori artisti. I primi sono coloro che meglio di altri, con maggiore accuratezza e bravura, riescono a dare forma allo spirito della loro epoca. E così ai valori culturali, sociali, estetici ecc.

Allora ecco che definiamo grandi gli artisti come Giotto, Michelangelo, Dürer, Rembrandt, David, Manet, Picasso, per citarne alcuni. Sta tutto nella loro capacità, prima e più di altri, di intercettare e illustrare in termini iconici lo spirito e i valori della loro epoca. 

Fallimento
Piero Manzoni, Merda d’artista (1961)

Da questo punto di vista, l’unica circostanza in cui l’arte fallisce è proprio quando smette di essere autonoma e indipendente. Quando cessa di adempiere alla sua funzione di veicolo dello spirito dell’epoca e si presta invece ad altre attività. Quelle che, per il loro carattere pratico e utilitaristico, possono andare incontro al fallimento: la politica e l’economia.

Quindi, se c’è un momento in cui l’opera d’arte fallisce  è proprio quando cessa di essere se stessa, ovvero quando perde la sua autonomia per servire pratiche extra-artistiche. Quando perde quella sua aura (come direbbe Walter Benjamin), finendo per essere identificata come un’attività qualunque. E, nei casi peggiori, andando incontro alla mercificazione.

 

 


 

FONTI

I. Kant, Critica al Giudizio 

W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

 

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