Il fallimento del sogno americano

Da qualche anno si sente spesso mormorare di un presunto fallimento del sogno americano, soprattutto in relazione alla presidenza di Trump e alla sua impronta sull’economia, la società e la psicologia mondiale. Ma cos’è effettivamente il sogno? Un’espressione masticata da troppe bocche e in troppi contesti, che ha di certo preso oggi un’accezione diversa da quella che aveva un secolo fa. “Il grande Gatsby” è riconosciuto come il romanzo che se ne è fatto emblema: dall’uomo arrivato dal nulla che si è costruito una fortuna con le proprie mani (e per vie non del tutto chiare) alla luce verde sul pontile, tutto evoca l’ambizione americana per un successo che è più idealistico che concreto, e che di fatto collassa al contatto con la realtà.

Negli stessi anni Thomas Wolfe, autore di “Look Homeward, Angel”, parlò del sogno americano in termini meno utopistici: lo individuò nella possibilità di ciascun uomo di raggiungere il ruolo lavorativo e lo status sociale cui ambisce, a prescindere dal background da cui proviene. I presupposti sono naturalmente il duro lavoro, caratteristica che deve essere impressa nella tempra di un uomo, e il fatto che l’America si configuri come una sorta di paese dei balocchi governato da una meritocrazia onnicomprensiva. Metti piede sul nostro suolo – sembrano dire gli Stati Uniti degli anni Venti – e rimboccati le maniche: verrai ricompensato. L’idea è affascinante, e lo è stata per milioni di europei, soprattutto italiani, che a inizio secolo sono stati attratti da quella “terra benedetta” e l’hanno raggiunta a costo di molti sacrifici, ma sicuri dell’imminente fortuna: e poco importava se alla fine le palate di dollari non si trovavano, il quadro d’insieme rimaneva immutato, perché il sogno era più un ordine sociale e un modo di condurre la vita piuttosto che l’acquisizione di salari alti e automobili di lusso. Certo, la componente denaro non mancava: l’economista Raj Chetty ha calcolato che nel 1940 il 90% dei giovani americani aveva un reddito superiore a quello dei genitori alla stessa età.

Infatti, se si trattasse di mera floridità economica, il sogno sarebbe fallito con la crisi del ’29. Invece, eccolo di nuovo protagonista del secondo dopo guerra, sostenuto dalla grande generosità (e dall’immensa disponibilità finanziaria) dimostrata dagli Usa nel concedere il piano Marshall per la ricostruzione del povero Vecchio Mondo europeo. L’idea del self-made man rimane anche in questi anni: la serie tv Mad Men rappresenta benissimo questo spirito, incarnato soprattutto dal suo protagonista, un uomo dalle origini oscure e miserrime che arriva ai vertici di un’agenzia pubblicitaria con la sola forza del proprio carismatico appeal.

Vari eventi hanno sembrato colpire in modo definitivo il sogno: la guerra fredda, l’uccisione di Kennedy, l’attentato dell’11 settembre. Ma è solo da un paio di decenni che si parla di un suo definitivo affondamento. Barack Obama ne è stato forse l’ultimo rantolo, con la sua immagine pulita e benevola, e la sua politica che tentava di dare agli umili una vita degna. Con Donald Trump la storia sembra aver svoltato bruscamente: Trump ha espressamente rinunciato ad affascinare il resto del mondo, la sua America si è fatta il regno dell’egoismo e delle disuguaglianze sociali. Ha raggiunto la presidenza dichiarando che il sogno americano era finito, e che suo compito sarebbe stato riportarlo in auge. Ma il suo stesso motto, “Make America Great Again“, è sintesi di un programma che vuole sì portare gli Usa alla ribalta, ma alzando un muro di fronte al resto dell’umanità invece che proponendosi come modello di libertà e prosperità.

Il trattamento disumano riservato agli immigrati messicani, tra cui la separazione forzata di genitori e figli, è stato il provvedimento più eclatante: ma la rete di diseguaglianze è sottesa al tessuto sociale di tutti e cinquanta gli stati americani, e si è accentuata alla luce dell’emergenza Covid-19. L’assistenza sanitaria è costosa, sono in tanti a non potersela permettere e, secondo gli esperti, saranno 200.000 a morire per mancanza di cure adeguate: tra questi, neri e latinos sono la grande maggioranza. Soltanto a New York, il tasso di mortalità è, ogni 100.000 deceduti, 22% per gli ispanici e 20% per i neri, la metà per bianchi e asiatici (rispettivamente 10%e 8%). Il New York Times, confrontando la mappa dei codici postali con la distribuzione dei decessi, ha dimostrato che la mortalità aumenta vertiginosamente nei quartieri popolari del Queens, Bronx o Brooklyn. Secondo il governatore di New York Andrew Cuomo, una possibile causa sarebbe il tipo di lavoro svolto dalle persone di queste etnie: impiegati in lavori pubblici ad alto rischio di contagio sono più facilmente esposti alla malattia e non possono permettersi il privilegio di una lunga quarantena a casa. In fin dei conti, quel sogno americano che promette successo in cambio di duro lavoro ha tradito i sognatori, lasciandoli solo con il duro lavoro e l’incertezza della sopravvivenza.

C’è chi ha espresso opinioni più crude: l’Atlantic, sorvolando il concetto pop di american dream, ha parlato di “fallimento del Paese America”. Trump, presentatosi come un presidente di guerra in tempi di guerra, avrebbe poi collaborato con l’invasore e lasciato il Paese in balia di un prolungato disastro. In assenza di un piano nazionale unitario, ogni stato è rimasto privo di indicazioni a dover decidere per sé. Gli Usa hanno perso quell’ideologia fortissima che teneva uniti gli abitanti di Stati federali immensi e lontani, e a questa divisione ha contribuito Donald Trump, con il suo elogio della discriminazione reciproca.

New York, la Grande Mela, la città che non dorme mai, il simbolo per antonomasia di quel paese dei balocchi che è sempre stata l’America agli occhi del resto dell’umanità, si è trovata a inizio pandemia debole e spaurita, gli scaffali dei suoi supermercati, per un momento, sono stati vuoti: una fragilità che ci si sarebbe aspettati in quasi ogni altra città del mondo, ma non a New York. Sintomo che forse il fallimento del sogno, dopo tanti allarmi, è davvero arrivato. In fondo, poco importa se la sua economia tornerà a splendere fra qualche tempo, se il capitalismo, che è la sua quintessenza, tornerà più forte di prima – è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, secondo Mark Fisher; il fatto che il resto del mondo non sia più ammaliato dalle grazie dell’America, non basta a decretare la fine del suo sogno?

 

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