L’Ungheria di Viktor Orban: la fine dello Stato di diritto

Viktor Orban, classe 1963, nasce a Székesfehérvár, in Ungheria. È chiamata anche la “città dei re” perchè in passato, oltre a Buda e Bratislava, era qui che si teneva l’incoronazione dei reali ungheresi. Orban prosegue i suoi studi fino all’università, a Budapest porta a termine gli studi di diritto. L’impegno politico è evidente fin da giovane. Alla fine del percorso universitario fonda la Federation of Young Democrats (la Fidesz), un partito connotato da una chiara impronta anticomunista. Nel 1990 entra per la prima volta nel Parlamento ungherese e tre anni dopo viene eletto leader della Fidesz. Nel 1998 inaugura la sua prima esperienza come Primo ministro, ruolo che ricopre fino al 2002. In quell’anno il suo partito è sconfitto dai socialisti, ma alla sconfitta risponde rinnovando internamente il partito e nel giro di qualche anno riconquista il potere, questa volta tenendoselo ben stretto anche in seguito: era il 2010.

L’attuale situazione d’Ungheria è perfettamente sintetizzata da uno scrittore ungherese, András Forgách:

Viktor Orbán ha costruito un sistema in base al quale, in ogni momento e senza nessuna opposizione, può trasformare il paese in una dittatura.

Detto fatto. Alla fine del mese scorso il primo ministro si rende protagonista di una nuova svolta autoritaria. Approfittando della situazione di emergenza globale dovuta alla pandemia causata dal Covid-19, egli è riuscito ad ottenere dal Parlamento ungherese pieni poteri. A tempo indeterminato egli potrà governare il Paese sulla base di decreti, chiudere o sospendere il Parlamento, modificare o sospendere le leggi già esistenti e ultimo, ma non per importanza, impedire lo svolgimento delle elezioni. Viene stabilita chiaramente la modalità tramite cui queste misure potranno essere cancellate: un voto sostenuto da almeno 2/3 del Parlamento e la firma del Presidente. In altre parole, sarà il partito di Orban l’unico che potrà rimuoverle.

Il percorso autoritario di Orban tocca l’apice con la recente mossa di marzo, ma non si tratta di un’azione isolata o imprevedibile. Viene coronato un progetto cronologicamente molto più lungo, reso possibile grazie (o a causa) di anni e anni di potere pressoché assoluto. Distruzione progressiva della separazione dei poteri, dei ruoli istituzionali, della loro trasparenza e infine della libertà d’informazione hanno come unico punto d’arrivo la fine della democrazia.

2004: ingresso nell’Unione Europea

Ungheria e Unione Europea raggiungono il punto più alto delle divergenze in relazione alla questione migratoria. Orban infatti può dirsi il portavoce delle politiche sovraniste (interne all’Europa) anti immigrazione. Non mancano i sostenitori europei, un esempio nostrano è la Lega di Salvini;  invece Marine Le Pen con il suo Rassemblement National in Francia e lo spagnolo Vox non hanno mai nascosto simpatie nei suoi confronti.

Lo scontro con l’Unione però non si limita alla regolamentazione dei flussi migratori, riguarda anche politiche interne da lui adottate. Negli ultimi anni infatti in Ungheria si sono susseguite leggi liberticide. A partire dal cambiamento nella denominazione statale, non più Repubblica d’Ungheria ma solo Ungheria. Una modifica minima, ma solo apparentemente. A una lettura della Costituzione è possibile rilevare a chiare lettere la deriva sempre più autoritaria e nazionalista, arrivando a una discriminazione aperta rispetto alle minoranze etniche e religiose. Altrettanto grave è il controllo sempre più stringente sui mezzi d’informazione, arrivando (in tempi recenti) a mettere in discussione quella che è la libertà di stampa.

Lo stato di diritto messo in discussione: le reazioni

L’Unione Europea ha comprensibilmente storto il naso di fronte all’ennesima prova del fatto che il regime ungherese sia tutto tranne che democratico. Colpevolmente in ritardo, altrettanto grave è il non aver preso provvedimenti significativi quando la deriva autoritaria era già palese a tutti. In ogni caso Judit Varga, dirigente della Fidesz e ministra della Giustizia, ha risposto alle polemiche e affermato: “Le decisioni al contrario sono pienamente in regola e del tutto conformi con l’ordinamento costituzionale e legale ungherese”.

Il Consiglio d’Europa ha ribadito come in uno stato di emergenza illimitato e incondizionato non sia possibile garantire i valori della democrazia. Valori che, a onor del vero, non erano propriamente garantiti nemmeno prima.

L’Unione Europea e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani si dicono preoccupate per la svolta autoritaria. Sono nove le organizzazioni a difesa della libertà di stampa e informazione che hanno chiesto azioni concrete. La risposta è arrivata dal commissario europeo per la Giustizia e lo Stato di diritto, Didier Reynders: “La Commissione europea sta valutando le misure di emergenza adottate dagli Stati membri in relazione ai diritti fondamentali. In particolare per il caso della legge votata oggi in Ungheria sullo stato d’emergenza e le nuove sanzioni penali per la diffusione di informazioni false.” Al momento bisognerà vedere se in questa occasione oltre a una formale dichiarazione d’intenti sarà possibile vedere qualche provvedimento concreto.

Reazioni italiane

Quanto sta succedendo in Ungheria non deve passare inosservato, il fatto che l’attenzione sia tutta rivolta al Covid-19 non deve autorizzare Paesi a dare concreto avvio a quelle che sono a tutti gli effetti derive autoritarie. Sono numerosi gli esponenti politici italiani che hanno commentato l’operato recente di Orban. Tra questi il presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico: “Da quello che ho letto, fino adesso, è un comportamento assolutamente non consono con le nostre democrazie europee”. Prosegue con l’affermare: “Trasferire i pieni poteri al primo ministro è una cosa che qui in Italia non sarebbe mai potuta avvenire”. Infine conclude con un sempreverde “la nostra Costituzione l’abbiamo tutti dentro”, spiegando come i decreti del presidente del Consiglio Conte siano tutti stati autorizzati dalle Camere. Ciò che sfugge nel commento è la critica a Orban, che sarebbe dovuta essere doverosa e primaria.

Parole più dure arrivano da due esponenti del PD, Orlando (vicesegretario del partito) e Andrea Romano (deputato della Commissione Esteri). Il primo sottolinea come ciò che sta avvenendo in Ungheria sia inaccettabile, ribadendo come un regime autoritario non possa far parte dell’Unione. Andrea Romano gli fa eco evidenziando chiaramente come l’Ungheria non sia più una democrazia parlamentare e “l’Europa deve usare ogni strumento di pressione”, affermando come l’epidemia non possa essere combattuta venendo meno alle istituzioni e alle garanzie democratiche. Dello stesso avviso è Matteo Renzi di Italia Viva, che fa anzi un passo in avanti parlando formalmente di cacciata dell’Ungheria dall’Unione europea.

Di tutt’altra opinione è la destra italiana. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, afferma in diretta televisiva: “Noi raccontiamo questo Orban come un esponente di un regime totalitario novecentesco, ma segnalo che è stato eletto. L’emergenza comporta delle scelte necessarie che stanno facendo in tutta Europa tutti i governi, compreso il nostro. Secondo me non c’è un rischio dittatura in Ungheria”. Usa toni più miti Tajani, videpresidente del Partito Popolare Europeo (in cui era presente anche il partito di Viktor Orban, ma al momento sospeso): “Sulla scelta ungherese i Parlamenti sono sovrani. Servivano norme comuni europee. La responsabilità più grande è dei paesi membri, questa strategia è distruttiva”. Parole meno gravose rispetto a quelle pronunciate da Giorgia Meloni, pur essendo comunque sulla stessa scia.

La prima “scelta necessaria” compiuta  da Viktor Orban però non ha nulla a che vedere con la battaglia al Covid-19, e riguarda invece i transgender. “Cambiare il proprio sesso biologico è impossibile, i caratteri sessuali primari e le caratteristiche cromosomiche sono immutabili e non possono essere modificate da nessun ufficio di registro dello Stato civile magiaro”. Questo è un estratto del testo della legge entrata in vigore dopo l’assunzione dei pieni poteri. Legge che si inserisce perfettamente all’interno del quadro di discriminazioni intollerabili per uno stato parte dell’Unione Europea. Già diverso tempo prima di questa deriva autoritaria, all’interno del Paese erano proibiti studi accademici e universitari sui temi legati al gender, al cambiamento di genere e ai matrimoni omosessuali.

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