Parasite: le catene della colpa

Il silenzioso cigolio degli scarafaggi, leggeri come fantasmi, che si ammassano nel buio delle cantine, cercando di raggiungere il salotto. Chi l’ha visto ha detto che Parasite, il film di Bong Joon-Ho pluripremiato agli Oscar, è una storia tra le storie. Un racconto che tra il fiabesco, il tragicomico, l’oscuro e il politico forza lo sguardo dello spettatore su degli spaventosi protagonisti: spettri, scarafaggi, scale e sorrisi.

Parasite non è un film da raccontare. La sua narrativa è complessa, rizomatica e su più livelli, composta ed asciugata dai movimenti di macchina accademici ma virtuosi di un regista che è andato a scuola da Hitchcock, Scorsese, Malick e Inarritu. La bellezza emerge nella dialettica tra il classicismo epico degli strumenti e la confusione dissociante degli indizi, delle tracce, delle molliche di pane che lo spettatore deve raccogliere per garantirsi un significato.

È stato descritto da molti come un film sulla lotta di classe, sulle disuguaglianze, sulla schizofrenia capitalista e sugli intoppi degli ascensori sociali. La verità, però, è che Parasite è tutto questo e molto ancora. La sua assoluta compiutezza sul piano cinematografico – che promette di annoverarlo nell’epica filmica con Lawrence d’Arabia, Via col Vento, Apocalypse Now e poche altre pellicole – non riempie e non giustifica la straziante perdita di senso, lo smarrimento nei rimandi, nei rispecchiamenti e nelle analogie di un simbolismo mistico, di un cinema complesso che trionfa sulla carcassa di quel cinema occidentale che non riesce più a uscire dai suoi topoi (se non vogliamo chiamarli stereotipi).

Il trionfo di Parasite sulla scialba anarchia di Joker e sugli smorti virtuosismi di 1917 è una vittoria simbolo sulla noiosa monotonia dell’industria culturale hollywoodiana, costretta a ripetersi e a campare di retrospettive (Once upon a time… in Hollywood). Bong Jon-Ho ha occupato la fabbrica, ha occupato l’industria e l’ha costretta a sganciare il testimone.

Oltre all’evidente appropriazione culturale au revers, che ha fatto fare a Bong con l’Occidente ciò che l’Occidente non riesce più a fare con la cultura di Bong, e quindi all’elegante rielaborazione di stili, tecniche e strumenti originariamente nostrani, Parasite ci ha regalato un nuovo ed entusiasmante cinema politico. Un cinema politico – come solo è possibile in questi giorni – globale.

Il racconto, profondamente coreano, si svolge interamente nelle spaventose logiche della società di Seul. Simboleggia però in maniera fedele quel mondo contemporaneo, post-Lehman-Brothers, post-fordista e postmoderno che è tutto il nostro mondo tardocapitalista. Quel mondo in cui la politica non attecchisce più. Quel mondo in cui l’arricchimento privato ha sgangherato ogni parvenza di pudore e in cui il protagonista è il nostro più tragico antagonista: le disuguaglianze.

Due famiglie. Una vive praticamente sotto terra (i Kim), l’altra sulla cima di una collina (i Park), sul belvedere di Seul. La scalata dei vinti alla conquista della bolla di grazia dei vincitori non prende però le forme di un’orda di zombie dal sottosuolo. Non è rivoluzione (come invece avviene in un altro capolavoro di Bong, Snowpiercer).

L’emersione è quella di uno spettro, di un senza voce, che nel segreto della sua disperazione non ruba, non violenta, non fa la guerra… ma continua a nascondersi. Stavolta, però, lo fa nei panni di quel mondo senza dolore e senza puzza, troppo impegnato ad inscenare la propria commedia.

Nella testa del piccolo principe, Da-song, la spaventosa sagoma notturna del sottoproletario è la forma di uno spettro, lo strappo nel suo mondo artificiale e l’interruzione della messinscena. Il bambino, il primo dei Park a percepire il cattivo odore delle vesti della famiglia Kim, non ricorda solo un flebile “odore di metropolitana”, non si limita a ricordare le occasioni di un passato remoto in cui la realtà si è manifestata con la dovuta distanza. Egli, nel giorno del suo compleanno, nel giorno della sua nascita, osserva la carne e le ossa del vero abitante del sottosuolo, quello che irrompe nel buio e richiama il ricco alla colpa della sua illusione, della sua illegittima superiorità. Da-song, tuttavia, è ancora un bambino. Non sa perciò esprimere con voce decisa ed occhi rassegnati ciò che tutti i Park, sul finale della storia, riconosceranno come il destino che bussa alla porta: il parassita.

Il parassita si nasconde, e per questo è un fantasma. Non si vede, resta silenzioso nel suo timore – un timore simile al “timor di Dio” della Bibbia, che si traduce in un senso di distanza incolmabile, un mistero nella differenza ontologica impossibile da superare. Così, i Kim, pur se nella loro rassegnata inferiorità, non riescono ad agire alla luce del sole, poiché non lo concepiscono. Loro, come gli scarafaggi, vivono negli interstizi, sotto le tegole, e si limitano ad abusare, non provando rancore nei confronti del padrone, non “progettando” una via per la ribalta come i fantasmi di Us o come i rivoluzionari di Snowpiercer. In effetti, nei loro cuori, non esiste progetto. Come confessato dal padre:

Il miglior piano nella vita è quello di non farsi mai dei piani.

Quando sta per cominciare l’infestazione della famiglia dei Park, il giovane Ki-woo confessa al padre di non agire seguendo un piano, e lui stesso, alla fine del film, sogna di pianificare, restando tuttavia legato nella cella della sua realtà. I parassiti, i disuguali, i perdenti, sono irrimediabilmente tessuti nella tragica assenza del futuro. È il futuro, infatti, il tempo in generale, la dimensione da cui l’umano contemporaneo è stato privato.

Mark Fisher e il pensiero accelerazionista osservano come l’essenza ultima della forma di vita neoliberista sia l’eterno presente, l’assenza di una storia e di una prospettiva. L’eterno presente dalle eterne risorse, l’ideologia alla base del crollo finanziario e morale di cui le nostre società diseguali soffrono e hanno sofferto, non sembra però considerare la possibilità della vendetta, la scorciatoia sociale del disastro. Solo gli scarafaggi, si pensa, sopravvivrebbero a un disastro nucleare. Ed è per questo che Ki-taek può dire entusiasmato:

Dobbiamo prendere il loro posto. I ricchi sono davvero dei fessi.

Ma quando la tensione tra i due mondi è diventata troppo forte, quando la farsa degli scarafaggi nascosti tra le colombe è crollata, permettendo di riconoscere un’insanabile distanza nella disuguaglianza, allora il conflitto è scoppiato, la tempesta è avvenuta. E dopo l’accoltellamento, ogni cosa ritorna al suo posto. Ki-taek pensa per un momento alla libertà, ma l’attrazione per il suo vuoto naturale è troppo forte, e ritorna parassita. I ricchi tornano nelle loro case, i giovani scarafaggi ai loro sogni senza piano, ai loro sorrisi senza progetto.

La risata isterica della follia di Ki-woo è più potente di quella di Joker, è più straziante del pianto solitario e della sofferenza immeritata. È un sorriso schizofrenico, che nasconde l’ingrato destino di chi rimane senza speranze, di chi sogna senza che gli sia nemmeno permesso di farlo. La risata è la risposta tardiva a quella frase di metà film: “dobbiamo prendere il loro posto”. Ma non possiamo. Il nostro destino selvaggio è nelle mani di chi inscena la propria commedia, facendosi guidare le proprie macchine e cucinare i propri noodles.

Il destino è nelle mani di chi tiene l’aria fresca e il tempo libero tutti per sé, lasciando le caverne e la sopravvivenza a chi deve subire, a chi deve sobbarcarsi gli impegni alla base della felicità degli altri.

Il protagonista di Parasite sono le scale, su cui gli scarafaggi si ammassano e si arrampicano a fatica. Ma per farlo, devono essere purificati. È questo il senso della disinfestazione imprevista che inonda il seminterrato dei Kim agli inizi del film. Il padre dice ai figli di non chiudere la finestra, ed assapora ad occhi chiusi il barlume di una chance. Ma poi, depestificati, gli scarafaggi si arrampicano. Inciampano sulle zampe di altri scarafaggi (Moon-gwang e suo marito). Poi, allo scoppio di un sacrificio vendicativo e necessario, ruzzolano giù nell’oscurità da cui sono partiti.

Parasite è un film senza soluzioni. È un’epica straziante dal ritmo cinematografico impeccabile che costituisce la migliore estetica del cinema contemporaneo e la più sferzante realtà del mondo presente. La tragedia, ci dice Aristotele, ci racconta dell’uomo da nulla, del suo errore e del suo buffo destino. Lo spettatore di Parasite, tra paura e pietà, guarda tra le maglie del mondo contemporaneo senza lacrime, imparando a fare attenzione quando scende le scale.


FONTI

Parasite, Bong Joon-Ho, 2019.

CREDITS

Immagine

Copertina: dell’autore

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