Dov'è casa mia

Guardare le parole da lontano: “Dov’è casa mia” di Davide Coltri

Ci sono, nel nostro vocabolario, parole semplici e così naturali da pronunciarle senza più farci caso. Parole e concetti che diamo per scontati, al punto da smettere di chiederci cosa significhino davvero, dimenticandoci della loro effettiva complessità. Per questo, talvolta, è utile allontanarsi, guardare le parole da lontano e osservare le molteplici sfaccettature che queste possono avere. Davide Coltri, nella sua raccolta di racconti Dov’è casa mia. Storie oltre i confini (Minimum fax, 2019), sembra occuparsi proprio di questo, con una delle parole più antiche di sempre: “casa”.

Impegnato per anni in missioni umanitarie tra l’Iraq, la Siria e la Tanzania, nel suo esordio letterario Coltri offre un’importante testimonianza delle condizioni di chi si trova a vivere in luoghi dilaniati dalle guerre e dagli atti di terrorismo. In tali luoghi, purtroppo, il concetto di “casa” cessa di essere sinonimo di sicurezza e stabilità, diventando invece sempre più complesso da definire.

Fuggire da una casa per cercarne un’altra

Casa, infatti, è quella che si è costretti ad abbandonare, poiché essa non offre più la possibilità di rimanere uniti, di crescere e ricercare la felicità. Essa diventa al tempo stesso una speranza, il desiderio formulato all’unisono nelle menti di profughi da diversi paesi, in viaggio verso l’Europa a bordo di un pericolante gommone. Così, per esempio, avviene in Khalat, racconto che apre la raccolta.

La protagonista e narratrice del racconto è una giovane studentessa di origini curde di nome Khalat. A causa della guerra civile esplosa in Siria nel 2011, la ragazza deve innanzitutto abbandonare Damasco, dove studiava all’università, per ricongiungersi alla famiglia nel villaggio d’origine. Ma anche questo si rivela pericoloso, e l’unica possibilità di salvezza consiste nella fuga. Fuga che porta Khalat e la sua famiglia dapprima in Iraq, dove la baracca di un campo profughi diventa qualcosa di molto simile a una vera dimora, e poi attraverso la Turchia e il Mediterraneo, alla volta dell’Unione Europea.

Se l’Europa possa diventare, a tutti gli effetti, una dimora stabile per le grandi quantità di persone giunte sino a qui dopo un viaggio terribile, rimane un quesito aperto. Potrà esserlo forse per i più giovani – sembra suggerire Coltri – che potranno frequentare le scuole e integrarsi totalmente nella società. Potrebbe non esserlo mai completamente per chi sente che tutta la sua vita sia rimasta laggiù, in quel luogo lontano e ormai troppo pericoloso. Ed è così che questo vocabolo apparentemente semplice acquisisce ombre e sfumature, perdendo la propria univocità: “casa” è un posto immaginato o ricordato, un pensiero avvolto dal timore e dalla nostalgia, un luogo che non può essere da nessuna parte e al tempo stesso è ovunque la vita possa continuare.

Lo sradicamento e il dramma di chi torna

Ma il senso di sradicamento narrato nella raccolta non riguarda solo profughi e migranti, ma anche gli operatori umanitari di cui lo stesso autore fa parte. Il tempo trascorso lontano dal proprio paese, infatti, fa scaturire una serie di dubbi e riflessioni nella mente dello scrittore emergente. Come prima cosa, vi è la sensazione di non essere più capiti a casa propria. Sembra che le dure esperienze vissute durante le missioni non possano essere comprese da chi non è abituato a mettere in dubbio le proprie parole, e ciò provoca una frustrante impossibilità di comunicare. “Aiutate anche me a casa mia, penso, perché questa non è più casa mia”, arriva così ad affermare lo scrittore in Scoramenti.

D’altra parte, osservando le dure condizioni che portano migliaia di persone a fuggire dai propri paesi, Coltri arriva quasi a provare vergogna per le motivazioni che lo hanno portato a lasciare l’Italia. Così, in Dov’è casa mia, racconto che chiude il volume e ne dà il titolo, leggiamo:

Come fai a restare in un campo profughi, consumato dalla noia e dall’inerzia, a ricevere le notizie del tuo paese che viene distrutto e di un conflitto che va solo peggiorando? La tua famiglia aveva investito tutto nella tua istruzione, e a quasi tre anni dal giorno in cui hai raccolto le tue carte all’università per scappare, la speranza di ritornare a casa è solo un ricordo spazzato via dalle bombe. L’ultimo pensiero prima di addormentarmi è che quattro anni fa io sono andato via dall’Italia per molto meno.

Nascere con il Passaporto “giusto”. Il senso di colpa dei privilegiati

L’autore, dunque, matura la consapevolezza della propria posizione privilegiata nel mondo. La posizione di chi, con un passaporto europeo alla mano, può andare quasi dappertutto inseguendo i propri sogni e i propri ideali. Tale lucidità è resa possibile proprio dall’incontro con persone che non condividono gli stessi privilegi. Ecco perché è fondamentale la figura di Kaniwar, protagonista dell’ultimo menzionato racconto, il cui nome significa proprio “dov’è casa mia”. Un dialogo tra Kaniwar e il narratore, non a caso, chiude il volume, offrendo alcune delle righe più pregnanti dell’intera raccolta:

«Quanti paesi puoi visitare col tuo passaporto?»
«Quasi centosessanta».
Farà una smorfia.
«C’è la guerra in Italia? Devi scappare?»
Scuoterò la testa.
«Il tuo è un passaporto, il mio è una trappola», dirà, scorrendo le pagine come a cercare un viso mancante.
Mi sentirò a disagio davanti a quella rabbia e resteremo in silenzio. Penserò al mio amico da lì a un anno, quando forse mi manderà una buona notizia, avrà trovato un lavoro vero e una ragazza, e mi dirà che l’hanno ammesso all’università. Penserò al giorno in cui guarderemo da lontano alla guerra in Siria e alle fortiere dell’Europa. Ma più di ogni altra cosa penserò a un tempo e a un luogo in cui potremo rispondere entrambi nel modo più semplice e giustamente banale alla domanda che riposa nel nome di Kaniwar.
«Dov’è casa mia?»
«Qui».

Quello di Coltri, dunque, è il tentativo portato avanti con successo di restituire una verità spesso ignorata. Nella nota posta in chiusura della raccolta, infatti, lo scrittore afferma che uno dei principali intenti della sua opera può essere definito tramite le parole di Orwell come un “impulso storico”, ovvero il desiderio di mettere in luce dei fatti reali nel modo più oggettivo possibile. Tale desiderio, affiancato alla tensione estetica tipica di ogni lavoro letterario, rende il libro una lettura capace non soltanto di mostrarci una realtà lontana, ma anche di porci le domande che abbiamo dimenticato.


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