La vita bugiarda degli adulti elena ferrante

“La vita bugiarda degli adulti”, un romanzo di (de)formazione

Nessuno conosce il suo vero nome, né il suo volto. Eppure, gran parte della platea dei lettori italiani (e non) rimane folgorato dalla sua penna da anni. Nessuno conosce le sue origini o la sua storia, ma è impossibile non credere che Napoli non abbia segnato il suo percorso di donna e scrittrice, come testimoniano le pagine fra le quali pullulano atmosfere dei rioni della città partenopea.
Ed è proprio nella Napoli protagonista della tetralogia de L’Amica Geniale che Elena Ferrante ci riaccompagna, mano nella mano, col suo nuovo romanzo La vita bugiarda degli adulti (Edizioni E/O).

Una nuova voce femminile si lascia ascoltare tra le pagine di questa narrazione. È la voce di Giovanna che, in un incipit che annuncia una sorta di plurimo “limitar di Dite”, ci catapulta nuovamente in un territorio che abbiamo intravisto anni prima, seguendo la crescita delle amate Elena e Lila. La Ferrante offre all’apertura il motore di questo nuovo romanzo: un singolo evento, descritto in poche righe, che segnerà profondamente la vita della dodicenne, diventando una linea di demarcazione tra varie realtà e soprattutto tra troppe bugie.  

Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri.

Giovanna, infatti, cammina in bilico su molte linee di confine sin dalle prime pagine.
Il suo corpo è in piena trasformazione, in quella fase di mutamento adolescenziale che ricordiamo tutti come una delle più intense e tumultuose della vita. Sarà proprio la graduale consapevolezza del cambiamento del sé fisico e interiore a far sì che la critica paterna diventi così tagliente da squarciare l’orgoglio della protagonista e aprire una faglia nel castello di ipocrisie in cui la stessa famiglia si è trincerata.

Nel garbuglio interiore di Giovanna si nasconde anche Giannì, un ponte di frontiera (e di unione) tra due anime della Napoli degli anni Novanta; quella del Vomero e quella della marginalità più estrema, nascosta tra le grida in dialetto e le scritte sui muri. La prima è quella in cui la dodicenne vive insieme ai suoi genitori, insegnanti di liceo, che la viziano e la amano spronandola unicamente a studiare. Suo padre – quasi come una proiezione al maschile dell’Elena della tetralogia – si è infatti fieramente lasciato alle spalle il sottoproletariato proprio grazie agli studi.

Secondo lui solo se ti fai vedere sempre con un libro in mano ti meriti di stare sulla faccia della terra, per lui se non hai studiato non sei nessuno.

Diversa è invece la condizione di sua sorella, la zia Vittoria, la brutta immagine della periferia che ricorda la povertà e la mancanza di emancipazione, la volgarità e il degrado. Nel mezzo di questo ossimoro potente fatto di borghesia e cultura da un lato, ignoranza e trasgressione dall’altro, Giovanna troverà spontaneamente il coraggio di fare il salto dal crinale dell’infanzia. Zia Vittoria è infatti una calamita troppo forte, abile nello spostare il baricentro della nipote sempre più a fondo nella città e nelle oscurità dell’esistenza. Calamita che rischia di trasformarsi in calamità vera.

Muovendosi dunque a tentoni tra le bugie di tutti gli adulti che la circondano, la nostra protagonista ci regala un posto d’onore su una malconcia Cinquecento che scorre via fra le stradine partenopee per essere co-protagonisti della disfatta e della riscoperta della realtà intorno a lei.
Giovanna si contamina così, pagina dopo pagina, di una nuova visione del mondo. Seguendo il cammino di un braccialetto (che passa di polso in polso fra varie donne della sua rete socio-familiare come correlativo oggettivo dell’inganno), si lascia iniziare da sua zia al meccanismo della menzogna, tanto abusata dagli adulti che apparentemente mostrano affetto e a cui si può sopravvivere solo utilizzando la stessa carta: quella della parola bugiarda che colpisce conficcandosi nella carne.

Elena Ferrante non perde il tocco della tetralogia precedente e sembra riportare ognuno di noi direttamente a casa. È impossibile infatti non pensare alle famiglie della saga mentre ci si insinua piano piano nella rete sociale della zia Vittoria. Come è improbabile bloccare l’associazione implicita con luoghi ed eventi vissuti da Elena e Lila. Come nei precedenti romanzi, l’autrice affascina i suoi lettori con la sua classica prosa ampia e voluttuosa, quasi come una coperta non consolante, capace di insinuarsi all’interno dell’immaginario con i suoi periodi lunghi. Da narratrice sontuosa e precisa scava nelle nostre esperienze, perfettamente sovrapponibili a quelle di Giovanna e del suo vissuto, sviscera i tarli che non abbiamo risolto e riporta alla luce e alla carne la vita concreta e dolorosa che abbiamo sopito. Non lascia spazio né a edulcoranti né a panacee. Tutto è concreto e in alcuni punti trascende il volgare (come per Giovanna, ci sarà impossibile dimenticare la descrizione della sessualità fatta da sua zia). L’intreccio gradualmente ci schiaffeggia in modo spietato, ci ferisce con rudezza per ricordarci quanto le cicatrici nascondano sangue e dolore.

L’amore è opaco come i vetri delle finestre dei cessi.

Il lettore è fagocitato dalla narrazione che scorre fluida, rendendo bulimico chiunque si approcci alle pagine. In linea con i personaggi che hanno colorato il rione dei romanzi precedenti, anche in questa nuova opera nessuna delle varie figure femminili e maschili sembra brillare di luce positiva o perdersi nell’ombra della colpa totale. Ogni protagonista è sfaccettato, multiforme, ombroso persino al chiarore delle rivelazioni. Ma negli anni Novanta non ci sono più le leggi del rione, non esistono più fortissimi preconcetti sociali che inficiano fortemente la dicotomia del buono e del cattivo. Solo la vita subentra prepotente a macchiare il nostro vissuto e la nostra crescita, plasmandoli con durezza, senza sconti, senza mediazione.

Non a caso la vera formazione di ognuno di noi passa solo per la deformazione, il dolore, la menzogna.


 

FONTI

Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, Edizioni E/O, 2019

 

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