strada del Donbas

Storie di confine: La strada del Donbas di Serhij Žadan

Che cos’è un confine? È davvero possibile tracciare linee nette di separazione tra le nazioni, i popoli e le singole persone? A tali difficili quesiti tenta di rispondere Serhij Žadan nel suo romanzo La strada del Donbas, pubblicato in Italia da Voland nel 2016.

L’autore, classe 1974, è una delle figure più influenti nella scena artistica e letteraria dell’Ucraina contemporanea. Artista eclettico, Žadan si destreggia tra la poesia – tramite cui affronta il delicato tema della guerra ancora in atto nelle regioni orientali del Paese – e la prosa, con frequenti incursioni anche nella sfera musicale, in cui è attivo come frontman della band ska Sobaky v kosmosi (ovvero: “Cani nello spazio”). Il romanzo La strada del Donbas è stato pubblicato per la prima volta in Ucraina nel 2010 e si è aggiudicato il premio di “BBC Ukrainian Book of the Year” di quell’anno.

Le vicende prendono il via da una telefonata che Herman, protagonista e narratore in prima persona, riceve dall’amico Koča, il quale gli riferisce che il fratello è scomparso e nessuno sa più come rintracciarlo. È questo il motivo che porta Herman a intraprendere un viaggio verso casa, nella regione del Donbas, dove scopre che una banda criminale sta cercando di impadronirsi della stazione di servizio di proprietà del fratello. Divenuto di fatto il responsabile della situazione, Herman si trova così a dover affrontare personalmente questi “nemici”.

Tuttavia, il faccia a faccia con la banda rivale non fa altro che rivelare la sostanziale vicinanza che sussiste tra Herman e loro, così impegnati a combattersi a vicenda. Proseguendo nella lettura del romanzo, infatti, diviene sempre più chiaro che in un territorio di confine come quello del Donbas ogni netta categorizzazione risulta artefatta e i poli di ogni dicotomia finiscono per mescolarsi, diventando infine indistinguibili. In un simile contesto, il desiderio di tracciare delle linee di separazione risponde all’umana esigenza di definire sé stessi, mantenendosi aggrappati a un confortante senso di appartenenza. Ma, come osservato nell’analisi critica di Zacharčenko, a dominare il paesaggio e le sensazioni dei protagonisti è un senso di vuoto che sfugge a tutti i tentativi di definizione. Ciò è particolarmente evidente nelle parole di Ernst, una delle voci più significative dell’opera:

“E qui comincia il peggio: all’improvviso capiti in un posto dove tutto scompare – le città, la popolazione, le infrastrutture. E persino i nemici scompaiono chissà dove, in quella situazione ti avrebbero persino fatto piacere, e invece sono scomparsi, e più ti inoltri verso est, più ti senti inquieto. Ma quando alla fine arrivi qui […] ti prende la paura, perché qui, oltre le ultime palizzate, trecento metri appena al di là della strada ferrata, finisce quello che tu ti immaginavi della guerra, e dell’Europa, e del paesaggio come tale, comincia il vuoto senza fine, senza contenuto, forma e sottotesto, il vero vuoto totale in cui non c’è neppure una cosa a cui aggrapparsi”.

Se il tentativo di auto-definizione tramite una contrapposizione con l’Altro risulta fallimentare, le pagine del romanzo sembrano suggerire una via alternativa per trovare la propria identità, mediante il recupero della memoria, privata e collettiva. Quello della memoria e del passato è un altro dei temi portanti dell’opera, e a questo proposito è interessante ricordare che in Ucraina l’opera è stata pubblicata con il significativo titolo di Vorošilovhrad, nome sovietico dell’odierna città di Luhansk, situata nell’Est del Paese. La caduta dell’Unione Sovietica sembra aver portato a un processo di rimozione collettiva: i monumenti sono stati demoliti, i nomi delle vie e delle città sono stati modificati, e nessuno vuole più ricordare ciò che è stato.

Il percorso verso l’accettazione del passato impegna così i protagonisti: Ernst, nel suo desiderio quasi ossessivo di ritrovare e dissotterrare le trincee e i carri armati tedeschi, svolge un procedimento simile a quello che Herman applica alla sfera privata. Entrambi hanno come compito quello di “dissotterrare” un passato che la comunità e i singoli hanno cercato di rimuovere, e tale recupero diventa il motore di una simbolica rinascita.

Con le sue ambientazioni degne di un film americano e il lirismo estraniante e a tratti surreale, La strada del Donbas invita il lettore a volgere il proprio sguardo alle periferie, per rendersi conto che esse sono capaci di porre questioni di portata universale. La vicinanza a un confine, infatti, porta a mettere ogni cosa in discussione, smascherando la convenzionalità di qualunque – seppur necessaria – separazione. Sorge il dubbio, dunque, che non sia un’eccezione quella dell’Ucraina orientale: il vuoto, forse, non elimina significati, ma al contrario svela una verità che l’Europa, immemore delle periferie, ha dimenticato; e cioè che i confini siano poco più che una mera illusione, e la netta distinzione tra Noi e l’Altro sia di fatto impossibile.


FONTI:

Žadan, La strada del Donbas, Voland, 2016, trad. di G. Brogi e M. Propovyč

Zacharčenko, While the ox is still alive: memory and emptiness in Zhadan’s Voroshilovhrad, in “Canadian Slavonic Papers”, vol. LV, nos. 1-2, March-June 2013

 

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