“Sulla morte senza esagerare”, con ironia

“Sulla morte senza esagerare”, con ironia

E poi che ne sa la Morte, lei che è immortale, di cosa significhi morire? 

Si apre il sipario e appare un personaggio elegante, dalla maschera scheletrica. Seduto su una panchina ha lo sguardo rivolto agli spettatori. Sembra in attesa di qualcosa, qualcuno. Ecco poi un annuncio. Allora tutto appare chiaro. Quell’uomo è la Morte. Attende le anime sul finire della vita e cerca di attirarle a sé. Lo spettatore si trova immerso in un universo surreale, al di là dei sistemi di verità universali. Viene costretto a fare i conti con l’ignoto, la Paura umana per eccellenza. Cosa significa guardare in faccia la Morte?

Al Teatro Franco Parenti torna la compagnia Teatro dei Gordi dopo il successo di Visite, durante la scorsa stagione. E lo fa con uno spettacolo spiazzante, immobilizzante. Sulla morte senza esagerare, regia di Riccardo Pippa, è uno spettacolo omaggio alla poetessa polacca premio Nobel nel 1996 Wisława Szymborska. Il titolo riprende, infatti, una delle sue più celebri poesie. Lo spettacolo, accolto con fragoroso successo, ha in passato ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio alla Produzione Scintille 2015 e il premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro 2015. La giovane compagnia è composta da allievi da poco diplomati alla Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. Partecipanti del progetto T.R.E., la compagnia è vincitore del FUNDER 35, un fondo offerto alle giovani associazioni culturali.

Lo spettacolo parla della Morte. Anzi, rappresenta la Morte. Perché sì, è uno spettacolo muto. A raccontare sulla scena non sono le parole degli attori, ma i corpi e le maschere, che spiccano nella loro potenza tragica, diventando protagoniste. Figlie di Arlecchino e Pantalone, eliminano la tipizzazione delle maschere di commedia dell’arte per lasciare spazio a un’espressività marcata, a caratteri più personalizzati. Vero è che i grandi protagonisti vengono ripresi (netta è la distinzione tra i vecchi e i giovani), ma tutto assume una caratterizzazione più soggettiva e individuale. Prodotte da Ilaria Ariemme, le maschere sono costituite da materiali piuttosto semplici: cartapesta, spugna. Ispirate alla pittura di Otto Dix, evocano personaggi contemporanei dalle tinture strabilianti. Insieme ai costumi, contribuiscono a riempire lo spazio (quasi vuoto) con pennellate di colore. Questa cifra espressionistica collabora perciò alla creazione di una scenografia ai limiti del surrealismo, essenziale e curata nei minimi dettagli.

La maschera sembra assorbire le parole. Quello prodotto è dunque un dialogo muto, ma pienamente comunicativo, sullo stile della compagnia Familie Flöz. Una voce silenziosa, emessa dal corpo. Maschera e corpo si muovono sul palco in un binomio indissolubile, un passo a due di una danza ipnotica. Così emozioni, sentimenti, dialoghi, sono filtrati attraverso la fisicità degli attori. Il corpo, proprio come nella commedia dell’arte, viene esaltato dalla maschera; ogni gesto, seppur impercettibile, diventa essenziale veicolo di un significato nascosto. Ecco dunque i personaggi, spogliati di ogni introspezione psicologica, varcare lo spazio scenico. Ciascuno è caratterizzato da specifiche movenze e partiture gestuali in un complesso organico e coerente. La Morte, elegante e raffinata, si contrappone ai corpi contorti ed espressivi dei moribondi.

Sulla morte senza esagerare propone una riflessione tragicomica sul mistero insolubile della fine della vita. Mette in scena lo spazio di mezzo tra la vita e la morte, l’attimo prima del trapasso. Tuttavia ciò viene realizzato con estrema leggerezza e un velo di ironia. Proprio come nel caso della Szymborska. Citando la poesia infatti:

Non sa fare neppure ciò/ che attiene al suo mestiere:/ né scavare una fossa,/ né mettere insieme una bara,/ né rassettare il disordine che lascia./ Occupata a uccidere,/ lo fa in modo maldestro,/ senza metodo né abilità./ Come se con ognuno di noi stesse imparando.

La Morte non è più avvolta da un’aura mitica o divina: sembra anzi essere avvolta da un alone di umanità. Dunque è imperfetta e manchevole, al punto da fallire nei suoi intenti, spesso. La Morte, si sa, non permette sconti, non giunge a patti. Eppure lo spettacolo sembra smentire questa ideologia comunemente accettata. Dell’iconografia tradizionale il personaggio conserva soltanto il velo nero sulla testa, come fosse un oggetto simbolico. Non ha scettri o abiti neri, non è imponente e malvagia. Anzi, partecipa a beffe e piccoli scherzi e il suo potere è effimero. Nello scontro con l’uomo infatti non risulta sempre vincitrice. Esemplificativa è la scena dell’impiccato: nonostante i ripetuti tentativi, la Morte non riesce a convincerlo a compiere il gesto fatale.

Lo spettacolo affronta con leggerezza il tema complesso e delicato della morte. Fa emozionare, ridere e sorridere, ma soprattutto riflettere. Umanizzare la Morte e, in un certo senso, ridicolizzarla, significa ridimensionare un intero sistema di valori. Significa avvicinare l’inavvicinabile e dialogare con l’assoluto. La Morte non è perfetta, possiede sbavature e incoerenze, proprio come l’uomo. Possiede vizi e capricci e, come afferma la poetessa:

La morte/ è sempre in ritardo di quell’attimo.

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