Giornata contro la violenza sulle donne: il caso Artemisia

Lunedì 25 novembre è stata la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Molti enti e organizzazioni hanno preso parte organizzando manifestazioni, convegni e cortei che hanno coinvolto la maggior parte delle città italiane.

Le sorelle Mirabal
Le sorelle Mirabal

Questa ricorrenza è stata istituita il 17 dicembre 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La data non è casuale: il 25 novembre del 1960 vennero infatti uccise tre donne, le sorelle Patria, Minerva e María Teresa Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Dominicana, sotto la dittatura di Rafael Leonidas Trujillo.

Il 25 novembre del 1981 si tenne il primo “Incontro Internazionale Femminista delle donne latinoamericane e caraibiche” durante il quale si scelse il 25 novembre come data contro la violenza sulle donne. E così nel 1999 l’ONU istituzionalizzò il tutto.

Solo nel 1993, tuttavia, venne riconosciuta la violenza sulle donne come problema da affrontare e combattere.

Anche se nell’ultimo secolo sono stati raggiunti questi piccoli traguardi, la storia ci mostra molto bene come la figura della donna sia sempre stata subordinata e considerata inferiore. I diritti sono stati conquistati molto lentamente e proprio grazie a donne come le sorelle Mirabal che hanno fatto sentire la loro voce.

Tutte noi possiamo contribuire al cambiamento, tramite la solidarietà reciproca e la denuncia. E proprio la denuncia è un punto fondamentale. Purtroppo però per rendere efficace la denuncia è necessario anche l’ascolto. Molto potrebbe raccontarci la grande donna, pittrice e icona del femminismo Artemisia Gentileschi.

Il caso di Artemisia

Artemisia Gentileschi nasce a Roma nel 1593. È figlia del pittore Orazio Gentileschi e di Prudenzia Montone, morta di parto quando Artemisia aveva solo dodici anni. Fin dall’infanzia il padre nota in lei un certo talento e la incoraggia dunque a coltivare la passione per la pittura, attività solitamente riservata agli uomini.

Quando è appena diciottenne, Artemisia viene stuprata da Agostino Tassi, pittore amico del padre Orazio Gentileschi e frequentatore della sua bottega. Si racconta che gli abusò più volete della ragazza e cercò alla fine di “sistemare” la situazione proponendole un matrimonio riparatore. All’epoca, infatti, il reato poteva essere estinto in seguito ad un matrimonio tra la vittima e il seviziato. Tutto ciò avrebbe salvato la reputazione di Artemisia (priorità imprescindibile all’epoca).
Si trovò dunque una soluzione? Non proprio. Si scoprì infatti che Agostino Tassi aveva già moglie.

Artemisia allora colse l’occasione e contro tutte le aspettative dell’epoca intentò un processo verso Tassi.

Il processo

Inizia così il periodo più buio della vita di Artemisia. Inizialmente nessuno le crede e l’artista subisce la tortura per mesi. È vittima della Sibilla, una tipologia di tortura ideata per punire i pittori e gli artisti che consisteva nello schiacciamento dei pollici e nel fasciar e le dita con delle corde fino a ferirle. Le mani dell’artista sono messe in grave pericolo e Artemisia rischia di perdere le sue abilità di pittrice.

Artemisia continua a ripetere che tutto ciò che ha raccontato sia vero e nel 1612 vince il processo. Questa fu una grande conquista per Artemisia considerando quanto la parola della donna fosse presa poco sul serio all’epoca.

Purtroppo ci furono delle pesanti conseguenze per la famiglia Gentileschi. Ormai per la società, l’onore di Artemisia è macchiato. Artemisia lascia Roma e sposa Pierantonio Stiattesi, un artista di Firenze.

Le sue opere più rappresentative

Giuditta che decapita Oloferne, Artemisia Gentileschi, 1612-1613Proprio al 1612 risale il suo dipinto Giuditta che decapita Oloferne, esposto ora al Museo nazionale di Capodimonte, Napoli. Secondo alcuni studiosi il soggetto potrebbe riferirsi e alludere alla violenza subita da Artemisia. Lo sguardo di Giuditta che decapita Oloferne è molto sicuro e fermo e la scena è particolarmente violenta.

Un confronto può essere fatto con l’opera realizzata dall’artista diciottenne nel 1610, Susanna e i Vecchioni. Qui, contrariamente a Giuditta, la donna è rappresentata indifesa e sopraffatta dai due uomini che sono sul punto di commettere la violenza.

Susanna e i Vecchioni, Artemisia Gentileschi, 1610Le rappresentazioni di Giuditta sono almeno sei e lasciano trasparire collera e sete di vendetta nei confronti del suo aggressore. La visione e i temi scelti da Giuditta cambiano. Il soggetto dei suoi dipinti è ora una donna vendicativa che agisce senza ascoltare la parola altrui.

Nonostante tutto ciò che Artemisia dovette affrontare, riuscì a raggiungere un certo livello con la sua carriera di pittrice. Riuscì a entrare all’Accademia dell’Arte di Firenze, prima donna ammessa. In seguito si spostò di nuovo a Roma e poi a Venezia e a Napoli.

Ora le sue opere sono conosciute in tutto il mondo. Artemisia è simbolo dei diritti delle donne e della loro forza, esempio da ricordare per le sue azioni e con la speranza che il passato non si ripeta.

 

 

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