L’origine dell’emigrazione nella sua manifestazione artistica

Per quelli che l’attraversano ammucchiati e in piedi sopra imbarchi d’azzardo, il Mediterraneo è un buttadentro. Al largo d’estate s’incrociano zattere e velieri, i più opposti destini. La grazia elegante, indifferente di una vela gonfia e pochi passeggeri a bordo, sfiora la scialuppa degli insaccati. Non risponde al saluto e all’aiuto. La prua affilata apre le onde a riccioli di burro. Dalla scialuppa la guardano sfilare senza potersi spiegare perché, inclinata su un fianco, non si rovescia, affonda, come succede a loro. Qualcuno di loro sorride a vedere l’immagine della fortuna. Qualcuno ci spera, di trovare un posto in un mondo così. Qualcuno di loro dispera di un mondo così.
(Erri De Luca)

Popoli tormentati da un futuro inconsistente, uccelli migratori che si preparano a sorvolare nuovi continenti, individui smossi dalla volontà di cercare fortuna altrove. Il mondo nasce per essere nomade. E, da sempre, la sedentarietà non sembra farne parte.

Sembra esserci nell’uomo, come nell’uccello, un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove.
(Marguerite Yourcenar).

Oggi, la questione “migranti” – soprattutto – sembra essere più accesa che mai. Notiziari televisivi, trasmissioni radiofoniche e quotidiani cartacei ci informano ogni giorno della situazione. Strumenti dalle mille risorse, se non fosse che gran parte di questi mirano ad enfatizzare enormemente quel che si vuol comunicare. L’ignoranza – data dalla totale incompetenza in materia – porta ad avere pregiudizi inopportuni a riguardo.

Etimologicamente, la parola migrante significa “colui che si sposta verso nuove sedi”. Non ci è dato conoscere, se c’è, la motivazione di questo spostamento. E in ogni caso, chi siamo noi per sentenziare e conferire etichette infondate?

Il migrante di oggi viene spesso ritenuto una distruzione, anzi la distruzione. Di popoli, comunità, culture, istituzioni, etnie. Nessuno – o quasi – considera questa una nuova opportunità, di crescita, progresso e aggregazione.

L’emigrazione italiana nell’arte

Quella che al giorno d’oggi viene omessa, e quindi tralasciata alla memoria di pochi eletti, è la grande emigrazione italiana di inizio Novecento. Non è forse vero che milioni di persone hanno lasciato lo stivale per cercare fortuna e successo altrove? Nel primo decennio del nuovo secolo, l’Italia perse più di due milioni di abitanti.

In concomitanza a ciò, si vide una totale dipendenza al fenomeno artistico. L’arte ha sempre avuto la capacità di raccontare l’esodo degli esseri umani.

Grazie allo sviluppo del Realismo, si incominciarono ad analizzare e studiare tutte quelle categorie prima poco considerate. Nascono le prime vere industrie, il lavoro si fa pesante e le istituzioni sembrano sempre essere a sfavore del popolo. È in questo contesto che la pittura italiana si avvicina al fenomeno dell’emigrazione. Un po’ per documentare, un po’ per smorzare le angosce.

Uno degli artisti che in questo fecero la differenza fu Angiolo Tommasi.
Nato a Livorno nel 1858, fu lui stesso un migrante, trasferendosi prima in Argentina e poi in Patagonia. Questo, probabilmente, gli permise una tale consapevolezza da poter realizzare, nel 1896, Gli emigranti. L’opera descrive, in maniera inconfutabile, il tema insidioso dell’emigrazione. Uomini, donne e bambini aspettano, ignari del tempo che passa, una nave che sembra non arrivare mai. Questa – che permette ai passeggeri di approdare in prossimità di nuove terre – è vista come simbolo di rinascita.

Particolare de  Gli emigranti – Angiolo Tommasi

Di qualche anno precedente, e molto simile simbolicamente, è il quadro omonimo di Raffaello Gambogi, famoso pittore post-macchiaiolo. Di formato più ridotto, rappresenta più scrupolosamente una scena d’addio familiare: un uomo – al centro della scena – saluta affettuosamente le sue origini prima della presunta partenza. Ancora una volta l’emigrazione è vista come unica via di fuga.

Gli emigranti – Raffaello Gambogi

La partenza presupponeva, purtroppo non tanto spesso, un ritorno a casa.

Il divisionista Giovanni Segantini – dal tratto slegato ineguagliabile – ci presenta Ritorno al paese natio. Non più di fronte al mare, ma in piena campagna. Un calesse a quattro ruote trainato da un cavallo diventa qui il mezzo di trasporto per eccellenza. Poche figure appaiono sulla scena, contraddistinta per la sua perentoria intimità.

Ritorno al paese natio – Giovanni Segantini

Cambiano i personaggi, il paesaggio, i colori e i tratti; ma l’emigrazione resta al centro, come marchio inconfutabile dentro a un mondo ormai ostinato e ribelle.

La vita della maggior parte di noi è caratterizzata da spostamenti, traslochi, partenze, ritorni, rimpatri. Le cause e i presupposti sono sempre giustificati, e perdonati. Di pretesti ce ne sono un milione, e ancor di più se si pensa ai benefici ai quali si incorre. Nuove strade, culture e tramonti che non fanno altro che aumentare ed arricchire la nostra anima e la nostra voglia di sentirci parte del mondo. Un punto d’arrivo – questo – che dovrebbe ormai inserirsi di consuetudine nei nostri comportamenti più naturali e genuini.

Soltanto in questo modo, un giorno – si spera non troppo lontano – potremo davvero dire di sentirci un’unica grande – molto grande – realtà.

Quando si avvicina uno straniero e noi lo confondiamo con un nostro fratello, poniamo fine a ogni conflitto. Ecco, questo è il momento in cui finisce la notte e comincia il giorno.
(Paulo Coelho).


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