L’effetto Werther: quando l’emulazione sfocia nella morte

Se oggi le regole della moda vengono dettate dai vari influencer, nella Germania di fine Settecento colui che determinava ciò che era di tendenza era un personaggio fittizio nato dalla penna di Goethe. Infatti non era difficile trovare ragazzi che indossassero calzoni gialli e giacche blu, magari con i capelli acconciati in un codino, proprio come il protagonista de I Dolori del Giovane Werther.

L’emulazione però non si limitava soltanto agli abiti. Subito dopo la pubblicazione e la diffusione dell’opera, aumentarono tra le fasce più giovani della popolazione i casi di suicidio con pistola. Nel romanzo, infatti, il giovane Werther si toglie la vita con un disperato gesto quando scopre che la donna amata, Charlotte, non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti.

Quest’ondata di suicidi negli anni Settanta del Settecento ha ispirato duecento anni dopo il sociologo David P. Philips nel coniare l’espressione Effetto Werther. Con  questo termine si indica l’incremento del numero di persone che scelgono di togliersi la vita in seguito alla diffusione della notizia di un caso di suicidio. Nella lingua tedesca per riferirsi allo stesso fenomeno si usa la terminologia Wertherfieber. Questa parola rende sicuramente di più l’idea della gravità e della velocità con cui si propaga l’imitazione del suicidio, proprio come se fosse appunto un’epidemia.

Sicuramente un elemento costitutivo di questo fenomeno è l’attenzione posta dai media ai casi di suicidio. La sensazionalizzazione dell’avvenimento da parte dei vari mezzi di comunicazione ha influenze molto negative, soprattutto per le aree demografiche più vicine a quelle della vittima. L’identificazione con il suicida è più facile che avvenga anche in base a fattori comuni come il sesso, l’età, la provenienza e, più in generale, le esperienze di vita.

Molto interessante è uno studio pubblicato il 30 dicembre 2017 su The Biomedica realizzato da Mary V Seeman. La donna ricorda di quando, mentre lavorava nel reparto di psichiatria dell’ospedale di New York City, venne diffusa la notizia della morte di Marilyn Monroe il cinque agosto 1962. I notiziari riportarono che la diva fu rinvenuta senza vita nella sua residenza in seguito a una overdose di barbiturici. Seeman, che era a stretto contatto con donne afflitte da disturbi psicologici (come la Monroe), notò che queste furono molto colpite e turbate dall’avvenimento in quanto si sentivano vicine alla vittima. Con il fine di scongiurare qualsiasi possibile gesto azzardato dettato dall’impulsività, la dottoressa istituì un gruppo di supporto per permettere alle pazienti di sfogarsi, consolarsi a vicenda e condividere i propri sentimenti.

Nonostante le buone intenzioni,  si ottenne l’effetto contrario: tre partecipanti delle riunioni tentarono di togliersi la vita nelle settimane successive. La creazione del gruppo infatti ha in qualche modo romanticizzato l’idea del suicidio agli occhi delle donne in cura, spingendole all’imitazione dell’atto.  Se le tre pazienti di Seeman sono state salvate in tempo, lo stesso non si può dire delle 303 persone che si sono suicidate nei due mesi seguenti al decesso della Monroe, soltanto negli Stati Uniti.  Addirittura, solo nell’area di Los Angeles il tasso di persone che decisero di farla finita in quell’arco di tempo aumentò del 40%.

Un altro studio condotto dal sociologo americano Steven Stack ha dimostrato che più spazio viene dedicato a una notizia di suicidio nei media, maggiore è il pericolo che si incorra nell’imitazione. Inoltre, secondo lui il caso che porterebbe a un maggiore desiderio di emulazione è quello della morte di attori e attrici. Avendo impersonato diversi ruoli durante la loro carriera, è più facile per i potenziali suicidi immedesimarsi in uno degli svariati personaggi. Come conseguenza, il distaccamento della figura dell’attore dalle persone da lui interpretate viene annullato.

Ci sono anche stati casi però  in cui l’effetto Werther non si è verificato, nonostante si temesse il contrario. Un esempio relativamente recente è quello di Kurt Cobain. Appena ventisettenne, nell’aprile 1994 il frontman dei Nirvana decise di togliersi la vita con un colpo di fucile alla tempia, lasciando la figlia Francis e la moglie Courtney Love. Secondo gli esperti, si riuscì ad evitare l’emulazione di massa perché la stampa e le televisioni locali non esaltarono il gesto, bensì mostrarono il dolore dei famigliari e si concentrarono su campagne di prevenzione del suicidio e di problemi di salute mentale. Probabilmente hanno anche influito le parole della stessa vedova. In un’intervista al giornalista Asher Daniel Colombo, Courtney Love dichiarò  che “Kurt era un grande musicista ma aveva fatto una grande cretinata”. Addirittura, nel lasso di tempo successivo alla sua morte, le chiamate ai numeri verdi per la prevenzione del suicidio aumentarono e le persone che si tolsero la vita diminuirono.

In conclusione, l’effetto Werther è la prova che i media, sia in tempi più antichi che in tempi più moderni, hanno un’influenza decisiva nella vita delle persone. Per questo motivo bisognerebbe porre più attenzione al modo in cui vengono diffuse e condivise le notizie.

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