La stazza del pivot: la storia di Enes Kanter

Enes Kanter è un cestista turco, zurighese, americano e apolide.

Tre case, per un dissidente, non ne fanno una. La casa madre, la Turchia, gli è stata tolta da Recep Erdogan, il presidente, l’attuale padrone di casa. Un cestista dell’NBA, dei Boston Celtics, non un leader politico, non un traditore della patria, è finito nel taccuino degli ospiti sgraditi del “sultano” turco. Questo dal 2017, da due anni, senza che l’Occidente intero non si macchi della responsabilità di questa cacciata, di questo esilio in terra liberale.

Cos’ha fatto Kanter?

Qual è la storia di questo pivot, di questo centro molto portato all’attacco, ottimo al rimbalzo? Cosa significa il suo nome, sottolineato a penna rossa nel taccuino di un monarca religioso, per la risaputa storia della Turchia di questi anni e per il ruolo del mondo tutto nei riguardi di questa violenta proscrizione?

Roberto Saviano, durante la puntata di Propaganda Live del 18/10/19, ha avuto il merito di portare all’attenzione del grande pubblico le disavventure di questo sportivo, la cui terribile sorte era precedentemente nota solo a uno sparuto gruppo di interessati. La storia è più o meno questa: il 16 ottobre, sul profilo Twitter di Kanter, compare un post.

I’m MORE than an athlete

(Sono PIU’ che un atleta).

E con ragione: Kanter non è considerato solo un atleta, ma un nemico pubblico.

Tutto comincia nel 2016, dopo il golpe fallito ai danni di Erdogan, il controverso evento politico che ha dato ancora più potere al sovrano e ancora meno scrupoli ai mezzi della sua riforma. Kanter, campione di basket, sicuramente molto noto in terra natale e forte di una lingua lunga e verace, ha preso posizione contro il despotato del presidente turco. Il giorno dopo – nei tempi di uno schiaffo o di uno scippo – alla famiglia del cestista, residente in Turchia, sono stati bloccati i passaporti e sequestrate le tecnologie di comunicazione. Al padre è stato inoltre ordinato di mandare una lettera di scuse al presidente, disconoscere il figlio e bollarlo come ospite sgradito nella sua stessa casa.

Cacciato quindi dalla casa dei genitori – e da quella di tutti i turchi – Kanter ha proseguito negli anni successivi lo sgradito mestiere di reietto, non perdendo comunque occasione di criticare le politiche di Erdogan e perdendo, a ogni tweet, un po’ della propria libertà e tranquillità. Più che un po’, in realtà. Nel 2017, a seguito dell’affermazione «Erdogan è l’Hitler del nostro secolo», Kanter viene condannato a 4 anni di carcere e viene spiato e minacciato dai servizi segreti turchi. La sua terra è per lui inaccessibile, la sua vita sempre più a rischio, la sua carriera compromessa da minacce e legittimi timori. Nonostante ciò, ha postato qualche giorno fa sui social le sue scarpe da allenamento con la scritta “Freedom”, foto descritta da una bandiera turca.

E’ difficile intromettersi nel discorso internazionale sui recenti fatti d’attualità turca senza rischiare di prendere grandi abbagli, mancare di lungimiranza storica e mal interpretare il passato.
I media non sono trasparenti, la morale non è universale, la politica è sovranità, la politica è rappresentanza, non esistono un buono, un brutto e un cattivo e non c’è spazio per le formule banali. Queste sono le uniche certezze su cui basare un ragionamento di relazioni e strategie internazionali. Le stridule ma necessarie voci delle piazze inconsapevoli fino al giorno prima, le mode politiche e le simpatie per fazioni sconosciute non descrivono affatto il popolo turco, le sue vicissitudini, le sue leggi, il golpe, la radicalizzazione e l’affaire curdo.

Ciò che è chiaro – o quanto meno verosimile – è che l’operato del presidente in carica Erdogan è contrario alla libera professione intellettuale, politica e religiosa. Kanter è la tragica vittima di una repressione, e la sua voce è stata zittita su tutti i mezzi di comunicazione turchi, il suo corpo esiliato dalla terra madre e costretto in giro per il mondo. Un mondo che difficilmente si assume le sue responsabilità. L’Europa teme l’apertura del ponte levatoio e la venuta di milioni di migranti. Gli Stati Uniti creano scompigli in casa d’altri e si alzano poi da tavola senza pagare.

Kanter è l’espressione nota di quelle vittime di una parte del mondo – che è ideologica e non geografica – di cui tutti siamo responsabili in maniera diretta, di cui nessuno non potrà prendersi almeno la briga di ascoltare le voci e interessarsi alla dura sorte.

Il male è un’eterna responsabilità nei confronti di ogni anima, sfondando le bandiere delle individualità, delle società, della storia e dei destini, come pensava Levinas.
Il male ha molte forme, certo, il male si dice in molti modi. Ma l’ordinaria coscienza non nega praticamente a nessuno che male” è ciò che spaventosamente diverge dalle conquiste dei diritti, dei riconoscimenti, delle vittorie di un’epoca.
La nostra epoca chiede libertà, rispetto, aiuto e tranquillità. La tranquillità non può essere il percorso di vittoria di un corpo singolo, poiché si presuppone che la storia dei secoli passati abbia portato tutte le comunità umane a considerare come vinta la guerra a chi viola la quiete della convivenza. Laddove questa non attecchisca, il mondo tutto deve organizzarsi con mezzi pacifici e senza secondi fini per garantire l’espressione di un diritto, di una necessità, non di una semplice richiesta.

La sovranità, de facto, è conflitto, la politica è lo scontro tra amici e nemici, come intuiva Carl Schmitt. Ma l’utopia è il regno dell’uguale e l’uguaglianza sana è il traino morale di ogni società reale. Se la realtà riduce le idee a sogni, la storia ha perso. Se Kanter non dormirà tranquillamente nelle notti del cielo di Ankara, la sua idea sarà un afflato e la sua sorte un realissimo delitto.

Kanter comincia con “Kant”: proprio Kant ammoniva le anime del suo tempo a considerarsi reciprocamente come fini e mai come mezzi. L’essere umano non è mai qualcosa di cui ci si può dimenticare di occuparsi – come sembrerebbe aver fatto il resto del mondo con questi avvenimenti. Le anime del nostro tempo dovrebbero avere il compito epocale – poiché globalista – di raccogliere l’identità di ogni individuo in un’unica e sana totalità di bene e, laddove sia necessario, condividere sulle spalle il peso delle disgrazie umane. Così commenta l’Espresso il 21 ottobre scorso.

I dissidenti sono persone che spesso ci fanno sentire meglio, non migliori. Sono persone che sulle proprie spalle caricano un peso che non riesce a essere equamente distribuito, e che quindi tocca solo a loro sopportare. Spesso leggiamo le loro storie con un misto di commozione e ammirazione, spesso pensiamo di essere fortunati a non dover prendere posizione come fanno loro, senza capire che stiamo perdendo la nostra occasione, l’occasione che abbiamo noi, qui e ora, per alleggerire chi difende i diritti che qualcuno non pensa nemmeno possano esistere o servire

Quando va a pregare in moschea, i simpatizzanti di Erdogan bersagliano Kanter di insulti e accuse di tradimento. Ma questo accade sempre più spesso e ormai quasi ovunque. La vita di un campione perennemente monitorata e messa sotto pressione da forze governative o spontanee. Ma l’atleta risponde così, sul Boston Globe:

Come loro aumentano la pressione, così alzo la voce. Non verrò scoraggiato. Stanno perdendo il loro tempo.

Come si può rimanere in un silenzio indifferente quando molti connazionali finiscono in carcere per anni solo per colpa di una pacifica dissidenza? Quando centinaia di bambini vengono partoriti e allevati dalle loro madri in cella?

Il basket è la mia fuga

afferma. Ma è difficile fuggire da spie, attentati, minacce e violenze. Il suo nome non compare più nei media turchi, i suoi profili social sono inaccessibili dalla sua terra. Viene intercettato chiunque voti per lui come partecipante all’All Stars Game. Non può giocare in nazionale e non può giocare partite all’estero, per via del costante timore che attanaglia ogni suo passo.

Le tenaglie alle parole, tuttavia, sono impossibili da mettere e facili da strappare. Il più grande favore che possiamo fare alle parole è dargli ascolto, dargli senso, e questo può essere fatto in tutto il mondo, sempre di più; soprattutto nel nostro pacifico e democratico mondo liberale.
La responsabilità, insomma, ci chiama: è istantanea come un tweet, invasiva come una notifica nella nostra coscienza.
Se non possiamo risolvere, almeno possiamo conoscere. E dobbiamo anche fare eco alle parole che ascoltiamo. Così che delle parole di pace, nate da un singolo, prendano la voce di una comunità e arrivino alle orecchie di chi i problemi può risolverli.


CREDITS

Copertina: foto del redattore

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