Walter Bonatti, il Re delle Alpi

Qualche settimana fa, il 13 settembre, è stato l’anniversario della scomparsa di Walter Bonatti, il Re delle Alpi. Pur essendo passati già 8 anni, la figura del grande alpinista italiano resta indelebilmente scolpita nei cuori non solamente di appassionati di montagna o climber, ma anche di persone estranee a quel mondo, che hanno riconosciuto in lui, oltre alle doti sportive e alle imprese emozionanti e fuori dal comune, anche un uomo di profondo pensiero, capace con le sue avventure e con le sue penetranti parole di esplorare l’animo proprio e degli altri.

La vita di Bonatti è stata un divenire sempre coerente di nuove avventure e scoperte, una lotta e un viaggio con i compagni e con la solitudine, tanto nelle proprie imprese alpinistiche quanto nelle successive peregrinazioni che lo hanno visto attraversare deserti e foreste, uno degli ultimi grandi esploratori figlio del secolo scorso, raccontate nei suoi reportage per la rivista Epoca e poi raccolte in diversi libri.

Da giovanissimo, inizia ad avvicinarsi al mondo selvaggio della montagna, tanto che già nel 1949, a soli diciannove anni, affronta scalate di estrema difficoltà, come le pareti del Pizzo Badile o delle Grandes Jorasses. Negli anni successivi, sia in solitaria che in compagnia di altri scalatori d’eccezione come Andrea Oggioni, il giovane Bonatti compie imprese sempre più sbalorditive, sia per l’epoca che per i giorni nostri, inanellando successi alpinistici, come pure imparando ad accettare cocenti rinunce e aprendo diverse vie personali di scalata, su pareti inviolate, come nel 1951 sulla pareste est del Gran Capucin.

A coronamento di questo periodo di scalate sempre più ardite che lo vedono vittorioso, parte nel 1954 alla volta del K2, seconda vetta più alta del pianeta e all’epoca ancora non conquistata, all’interno della spedizione del CAI guidata da Ardito Desio, per un’esperienza che lo segnerà per tutta la vita. Sul monte del Karakorum, infatti, Bonatti sopravvive incredibilmente ad una notte all’addiaccio, in compagnia del portatore d’alta quota Amir Mahdi, dopo che i suoi due compagni Lino Lacedelli e Achille Compagnoni, che conquisteranno la vetta, avevano deciso di spostare 250 metri più in alto di quanto accordato con il giovane alpinista bergamasco il nono campo base, punto di partenza per la scalata decisiva. Se l’esperienza fisica prova Bonatti fino allo stremo delle forze, lottando contro temperature inferiori ai -40 °C e ai venti gelidi senza tenda, sacco a pelo o qualsiasi altro mezzo per potersi riparare, è la delusione umana quella che più ferirà l’alpinista, tanto che negli anni successivi prediligerà sempre più spedizioni in solitaria o con pochi e intimi amici.

La vicenda del K2 inoltre si trasforma per i successivi cinquanta anni in un doloroso scontro con il CAI e gli alpinisti Lacedelli e Compagnoni, dato che la versione ufficiale del capo spedizione Desio non confermerà quanto riportato da Bonatti, cercando di nascondere una scomoda verità che avrebbe macchiato il resoconto di una conquista nazionale. Solamente nel 1994 i fatti iniziano ad essere controllati e la parete di omertà e compiacenza diventa più fragile, fino a quando nel 2004 il CAI riconosce, dopo attente ricerche ed indagini, la veridicità delle affermazioni di Bonatti, stabilendo il reale svolgimento dei fatti.

Le scalate del futuro Re delle Alpi si susseguono, in Italia come in tutto il mondo, tanto che le imprese compiute su montagne quali il Monte Bianco, il Gasherbrum IV o la sua scalata invernale in solitaria della parete nord del Cervino, con cui nel 1965 saluta il mondo dell’alpinismo estremo, sono talmente iconiche e raccontate da essere veri e propri modelli e fonti d’ispirazione per intere generazioni successive di scalatori, riconosciute oltre che per la difficoltà, anche in relazione alla strumentazione tecnica dell’epoca, per la loro estrema bellezza e limpidezza. Vere e proprie opere d’arte alpinistiche.

Animo frenetico e avventuroso, dopo aver lasciato il mondo professionistico delle scalate, intraprende per diversi anni viaggi in tutto il globo come reporter. Tramite i suoi racconti autobiografici, Walter Bonatti riesce non solo a descrivere paesaggi inaccessibili e sublimi ma anche a condividere coi suoi lettori profonde riflessioni sociologiche, antropologiche e più semplicemente pensieri intimi e diretti, aprendosi al mondo tramite le sue parole e alla carta stampata, dato che, dopo il caso del K2 e fino alla revisione finale del 2008, mantiene un atteggiamento schivo nei confronti di televisioni e giornali.

Oggi Walter Bonatti è riconosciuto come uno dei più grandi alpinisti mai esistiti, per tempra, forza fisica e sportiva, coraggio e grande abilità, avendo scalato vie ritenute impossibili e affrontato prove di estrema difficoltà e bellezza. Ma ciò che colpisce è che oltre a tutto questo, Bonatti risalta tra i grandi alpinisti per essere stato prima di un grande sportivo, un grande uomo. Un modello per i giovani appassionati di montagna, un compagno letterario in grado di far sognare e riflettere con le sue parole, un uomo duro e diretto, che ha vissuto libero avventurandosi tanto nel mondo sconfinato quanto nel proprio animo.

Durante una delle rare interviste televisive che lo hanno visto protagonista, ha detto a Enzo Biagi di considerarsi, e di cercare di essere “un uomo che si visse fino in fondo”. Quanti vorrebbero poter dire di esser riusciti a viversi davvero? Quanti riescono ad accettare le proprie necessità, ambizioni e debolezze? Questo ha lasciato Walter Bonatti, la capacità di affrontare a testa alta la propria vita, cercando sempre l’onestà della propria natura e del mondo.

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