Benjamin Netanyahu: a un passo dalla fine o da un nuovo inizio?

In Israele il governo tredicennale di Benjamin Netanyahu potrebbe volgere al termine.

In seguito alle elezioni dello scorso 9 aprile per il rinnovamento della Knesset (il Parlamento israeliano), il Presidente uscente Netanyahu non è riuscito, entro il mandato esplorativo assegnatogli, ad ottenere la maggioranza in Parlamento per formare un nuovo governo, a causa della carenza di numeri e alleanze. Per questo motivo, il 17 settembre si sono rese necessarie nuove consultazioni, il cui esito è ancora incerto.

Il sistema politico israeliano

La politica d’Israele è tra le più fragili del mondo occidentale: dalla fondazione dello Stato d’Israele ad oggi si sono succeduti 34 governi. Si aggiunge la difficoltà a governare un Paese in cui è ancora vivo il contrasto religioso, per cui la pace risulta assai tesa.

Israele è una repubblica democratica. Il potere legislativo è affidato a un Parlamento unicamerale con 120 membri, nominato “Knesset”, i cui parlamentari vengono eletti ogni quattro anni. La Knesset elegge il Presidente di Israele per un mandato di sette anni e vota la fiducia al governo. Il potere esecutivo, invece, è affidato al Primo Ministro, che è il leader del partito o della coalizione maggioritaria in Parlamento e che, insieme ai ministri da lui nominati, forma il governo.

Benjamin Netanyahu

Benjamin Netanyahu (soprannominato amichevolmente Bibi) è stato il Presidente più votato in assoluto, con ben tredici anni di governo, più del tanto acclamato David Ben-Gurion, fondatore dello Stato di Israele.

Netanyahu è stato votato per la prima volta nel 1996, quando era a capo del partito di centrodestra nazionalista e liberale Likud, in seguito per ben altre quattro elezioni consecutive dal 2009 fino alle elezioni del 9 aprile di quest’anno, dopodiché avrebbe dovuto iniziare il quinto mandato, se la situazione non fosse precipitata. Pare inoltre che queste ultime elezioni abbiano diviso la popolazione in due: tra “pro” e “contro” Netanyahu.

Il lungo periodo  del suo governo è stato caratterizzato dallo stesso sovranismo e nazionalismo che oggi dilaga in molti Paesi. Fu amico sia di Donald Trump sia di Vladimir Putin.

Il motivo del suo successo?

Senz’altro i traguardi economici di ispirazione liberista che negli anni del suo governo hanno reso Israele un Paese in tutto e per tutto “occidentale”, nonostante sia geograficamente collocato in Medio Oriente.

Dal 2003 al 2005 è stato ministro delle finanze nel governo di Ariel Sharon, e anche in quell’epoca agì positivamente in ambito economico, tagliando le tasse e limitando gli interventi dello Stato nell’economia privata.

Tornato al potere nel 2009, quando Israele risentiva della grande crisi finanziaria che aveva colpito gli Stati Uniti, Netanyahu fece in modo che l’economia continuasse a rimanere stabile o a crescere: la crescita annuale del PIL non scese mai sotto il 3% (il che ha fatto dell’economia di Israele una delle più solide dell’Occidente), il debito nazionale è addirittura sceso sotto il 6%, registrando un record dell’occupazione e persino l’integrazione nel sistema economico delle comunità più svantaggiate: arabi israeliani (20% della popolazione) e gli ebrei ultra-ortodossi.

Come non considerare poi la sua lungimiranza nell’agevolare la crescita delle start up, che per numero e quantità di investimenti superano di gran lunga Francia e Germania. Inoltre ha promosso l’Hi-Tech, tanto da rendere Israele una potenza globale della cyber-security.

Nonostante l’economia continuasse a correre, al contempo aumentava la disparità nella distribuzione della ricchezza. Tanto che nel 2011 in Israele scoppiò una sorta primavera politica: innumerevoli ragazzi iniziarono a protestare per le strade di Tel Aviv contro il caro-vita (cioè il rincaro dei generi di maggior consumo) e per il costo eccessivo delle case. Netanyahu  fronteggiò la situazione livellando l’imposizione fiscale e accrescendo i controlli in ambito privato.

A proposito della perizia in ambito economico, occorre ricordare che Netanyahu visse fino a 40 anni quasi sempre in America, dove frequentò il College a Philadelphia, in seguito conseguì un master di Business Management con i voti più alti al MIT di Boston, e infine ebbe una lunga esperienza professionale alla Boston Consulting Group. Dopodiché abbandonò la carriera in America per ritornare nel suo Paese e aiutarlo a crescere. Arrivato in Israele, attraverso una propaganda nazionalista, ebbe una carriera stupefacente: a 35 anni era ambasciatore Onu, a 43 divenne leader del Likud, a 45 fu il più giovane primo ministro dello Stato d’Israele.

Fu particolarmente apprezzato anche dalle forze militari in quanto da giovane si distinse perfino in questo ambito per abilità: faceva parte della Sayeret Mektal, cioè un’élite dei reparti speciali, con cui partecipò attivamente alla guerra del Kippur (1973) e ad altre missioni.

Lascito dell’esperienza in ambito militare è stata l’attenzione alla sicurezza nazionale. A tal proposito una delle sue più importanti decisioni fu quella di opporsi fermamente alla nascita in uno Stato palestinese in Cisgiordania e alla restituzione delle alture del Golan alla Siria.

Fu anche grazie a queste scelte e prese di posizione che Netanyahu conquistò fama a livello internazionale.

Al momento invece non si sa ancora quale sarà l’esito delle elezioni. Bisogna tuttavia considerare che Netanyahu anche in questa situazione rimarrà uno dei principali candidati alla vittoria, nonostante gli scandali che hanno indebolito la sua notorietà e per i quali avrebbe perso parte del suo elettorato: tre inchieste per corruzione, frode e abuso d’ufficio dalle quali non potrà difendersi facilmente se non riotterrà più l’incarico di Primo Ministro.

Comunque vada, si deve iniziare a valutare la possibilità che Israele rimanga privo del suo storico presidente Bibi. Il che apre un nuovo capitolo per il Paese, ancora tutto da scrivere.

 

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