La colonna sonora come genere musicale: il caso di Nino Rota

Cinema e musica, si sa, sono due facce della stessa medaglia: si tratta di due espressioni artistiche che, anche se lontane l’una dall’altra, vengono spesso unite da registi e musicisti per creare un impatto con il prodotto finito che sia ancora più memorabile per lo spettatore.

Un cinema senza musica: è possibile?

Alcuni registi, per avvicinare alla realtà ciò che mettono in scena, decidono di sacrificare la sfera più strettamente musicale (ma, ben inteso, non quella legata allo studio del suono), spogliando così il loro lavoro, rendendolo più crudo. Questi film non sono quindi romanzati tramite una colonna sonora che andrebbe a “guidare” lo spettatore attraverso le diverse emozioni che ogni scena vuole suggerire, ma lasciando invece questo compito alle semplici immagini.

Qui potete trovare una lista di film nei quali la colonna sonora è del tutto assente, o quasi.

Come si può notare, vengono elencati anche film che hanno fatto la storia del cinema internazionale. Tra questi Gli uccelli (1963) di Hitchcock e Le iene (1992) di Tarantino, entrambi registi che durante la loro carriera hanno sperimentato attraverso musica e suoni, rendendoli a volte protagonisti delle proprie pellicole.

Basti pensare alla famosissima scena della doccia in Psyco (1960), film capolavoro di Hitchcock, nella quale i suoni striduli e gli inquietanti archi del compositore Bernard Herrmann scandiscono l’avvicinarsi dell’assassino alla sua vittima. Quei suoni sono rimasti impressi nella memoria collettiva fino a diventare una sorta di “immagine uditiva”, utilizzata quando si vuole comunicare una sensazione di forte tensione ed estremo disagio. Per quanto riguarda Tarantino non esiste esempio più calzante di Kill Bill: Volume 1 (2003), nel quale lo stesso Herrmann ha creato una colonna sonora che costruisce un crescendo di pathos, partendo dal celeberrimo fischiettio che è diventato quasi un marchio di fabbrica del film di Tarantino.

Come la musica si lega al cinema (e viceversa)

Se provassimo a pensare a tutti i film dove abbiamo fatto da spettatori ci accorgeremmo che tutti erano corredati da una colonna sonora scritta apposta per l’occasione, oppure studiata ad hoc su tracce già esistenti. Questa dicotomia funziona anche al contrario. Non è raro, infatti, che mentre siamo intenti ad ascoltare una canzone ci scorrano davanti agli occhi, oltre che i ricordi legati a quella particolare traccia, anche le immagini del videoclip della canzone stessa.

Il fatto che esista un’interazione per lo più positiva fra queste due forme d’arte è dimostrato dall’attesa impaziente che viene generata, soprattutto in rete, nel momento in cui un musicista rivela l’intenzione di tradurre in immagini le parole e la musica del proprio ultimo singolo.

Un’abitudine che ha radici antiche

Sono stati portati avanti alcuni esperimenti che consistevano nel privare alcune scene provenienti da film cult del loro accompagnamento musicale. Com’era prevedibile, la presa emotiva che quelle stesse scene avevano sull’audience, in seguito a questa privazione, non poteva essere paragonabile all’impatto che avevano avuto con il montaggio originale.

Ciò succede – oltre che per il grande potere emotivo della musica – perché, come spettatori, siamo totalmente abituati a recepire l’input sonoro e quello visivo in contemporanea. Siamo abituati a vedere scorrere sullo schermo delle immagini corredate da musica; anche se la reputiamo solo un sottofondo e non le diamo un ruolo di primaria importanza. Quando questi elementi vengono scissi non proviamo più le stesse emozioni di qualche secondo prima.

In effetti, fin dagli albori del cinema si tendeva ad aggiungere alle immagini in movimento un accompagnamento musicale. Perfino quando il muto spopolava nei primissimi nickelodeon (le prime sale nate all’inizio del XX secolo nell’America del Nord, dove venivano proiettati i primi cortometraggi e alle quali il pubblico accedeva tramite un biglietto da un nickel – il famoso nichelino – ovvero cinque centesimi di dollaro) era presente l’accompagnamento di un’orchestra o, in mancanza di essa, di un pianista.

Ecco il pensiero di Herrmann riguardo il ruolo della musica nel cinema:

I feel that music on the screen can seek out and intensify the inner thoughts of the characters. It can invest a scene with terror, grandeur, gaiety, or misery. It can propel narrative swiftly forward, or slow it down. It often lifts mere dialogue into the realm of poetry. Finally, it is the communicating link between the screen and the audience, reaching out and enveloping all into one single experience.

La prospettiva italiana: Nino Rota

Facciamo un salto avanti nel tempo e arriviamo nell’Italia dei primi anni Trenta, quando il sonoro stava oramai prendendo piede anche nel Belpaese.

Un giovane Nino Rota si stava affermando come compositore per il cinema, scrivendo la colonna sonora di alcuni film come il neorealista Treno popolare (1933), dell’altrettanto giovane regista Raffaello Matarazzo.

Rota, già studente del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano e autore di opere liriche, lavori sinfonici e pagine cameristiche, si dedica – a partire proprio dagli anni Trenta – alla composizione di colonne sonore per il cinema.

Nino Rota
Nino Rota

L’ambiente cinematografico di quegli anni era in continuo fermento, non solo a causa delle innovazioni tecniche che venivano continuamente apportate sia alle camere da presa che alle pellicole, ma anche per via di un continuo ricircolo di idee riguardo nuovi stili cinematografici, nuovi soggetti e con essi nuovi modi di trattarli.

Negli stessi anni nasceva anche Cinecittà, grande polo produttivo per l’industria cinematografica italiana. In questo contesto pieno di stimoli si sviluppa la carriera di Nino Rota. Iniziano le la collaborazioni con grandi registi dell’epoca come Steno, Mario Monicelli, Mario Soldati, Luchino Visconti, Eduardo de Filippo e Franco Zeffirelli.

Ma la collaborazione artistica, tramutatasi poi in amicizia, che ha lasciato il solco maggiore nella sua esperienza è stata quella con il grande Federico Fellini. Rota ha musicato film del calibro de La strada, 8 ½ e Amarcord. Tutti e tre vincitori dell’Oscar come miglior film straniero rispettivamente nel 1957, 1964 e nel 1975.

In un’intervista radiofonica del gennaio 1979 – alla quale era presente anche Rota – Fellini ha affermato:

Il mio rapporto con la musica è tutto sommato un rapporto di vago fastidio, di inquietudine. […] La musica mi turba, insomma, preferisco non sentirla. È una specie di invasione, di possessione, qualcosa che entra dentro di me e mi assorbe, mi prende completamente. È questo tipo di invasione che mi allarma, che mi inquieta. La musica, se non ha a che fare proprio con la mia professione e quindi attraverso la mediazione, la protezione dell’amico Nino, del musicista Rota, in generale la evito. Infatti, la mia ignoranza in fatto di musica è totale.

Insomma, Fellini non era un grande amante della musica. Nonostante questo, se provassimo a concepire il suo La dolce vita (1960) senza musica, probabilmente penseremmo che a Marcello (Marcello Mastroianni) e a Sylvia (Anita Ekberg) sia stato tolto qualcosa di importante; quell’accompagnamento durante le passeggiate notturne per la capitale dato dalle “placide” note di Rota.

Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una scena de La dolce vita

Lo stesso vale per Amarcord. Altro capolavoro nel quale il maestro racconta al suo pubblico del ricordo (il titolo significa, appunto, “mi ricordo” in dialetto romagnolo) della vita riminese. È difficile non innamorarsi delle musiche che fanno da sfondo e accompagnano le attività quotidiane dei personaggi.

Rota riesce a rendere in musica quella stessa aura onirica, sognatrice, quei ricordi annebbiati ma anche quei momenti di assoluto realismo che Fellini ha posto come punti cardine dei suoi film.

Nonostante le avversità, dunque, si tratta di un sodalizio decisamente ben riuscito, tanto da rendere inscindibili i lavori del regista e quelli del compositore. Quest’ultimo riceverà, nel 1977, il David di Donatello come miglior musicista proprio per il film del regista romagnolo, Il Casanova di Federico Fellini (1976).

Il caso Amarcord

Proiettato per la prima volta nel 1973, Amarcord ci propone una Rimini del passato (per la precisione degli anni Trenta: lo si intuisce dalle celebrazioni del sabato fascista e dall’accenno alla VII edizione della Mille Miglia) ancora viva nei ricordi del regista. Lo spettatore si ritrova a fare i conti con la routine quotidiana di diversi personaggi che rimangono come in un limbo, in una sorta di visione onirica legata al deteriorarsi della memoria di chi li osserva.

Fellini è stato innovatore perfino nel titolo. Quello che ora è sì un neologismo, ma di uso piuttosto comune, all’epoca della prima proiezione del film era un’espressione abbastanza insolita per i non romagnoli. Infatti, come già accennato, si tratta della versione dialettale della frase “io mi ricordo“.

Ma analizziamo alcune tracce tratte dalla colonna sonora di Rota.

Amarcord (theme)

La prima traccia è Amarcord; vediamo scorrere i titoli di testa del film mentre ascoltiamo le note di quello che diventerà poi il theme della pellicola. È la traccia che per prima viene in mente quando si pensa al film e viceversa. Sono note che fanno parte dell’immaginario collettivo e rimangono inscindibili dalle immagini alle quali sono legate. Queste stesse note verranno riprese durante tutto il film in diversi brani della colonna sonora dello stesso.

La Fogaraccia

La fogaraccia è parte della tradizione romagnola: si tratta di una catasta di legname e di mobili vecchi ai quali viene dato fuoco. Le note ritmate di questa traccia, una sorta di marcia, fanno da accompagnamento al falò che è di buon auspicio e simbolizza il passaggio dall’inverno alla primavera (il film inizia, infatti, nel marzo del 1932).

Le Manine di primavera

La fisarmonica dell’artista di strada riminese fa da spina dorsale a questa terza traccia. Sono note che riportano lo spettatore al tema del circo, chiave importante nel cinema di Fellini. Le “manine” del titolo fanno riferimento alla lanugine dei pioppi, ovvero i classici batuffoli bianchi che vediamo volare in campagna e in città all’inizio della primavera.

Danzando nella Nebbia

Si tratta della nona traccia dell’album che fa da colonna sonora alla scena in cui diversi ragazzi ballano di fronte al Grand Hotel durante una giornata autunnale decisamente uggiosa. Fra loro troviamo anche colui che potremmo considerare uno dei protagonisti del film, ovvero Titta, alter ego di un amico di infanzia di Fellini. La nebbia invade le strade di Rimini, tanto che il nonno di Titta, pur trovandosi di fronte a casa sua, pensa di essersi perso e chiede a un conoscente di indicargli la via. Nel ballo spensierato dei ragazzi è racchiusa l’idea di “gioventù”, rafforzata dalla melodia leggera che accompagna la scena, riprendendo il tema musicale del film. Inoltre, la nebbia simboleggia il potere erosivo del tempo che avvolge i ricordi e li nasconde lentamente alla memoria; così come la nebbia nasconde alla vista tutto ciò che ci circonda.

La Gradisca si Sposa e se ne va

Ultima traccia. L’eterna signorina del paese, la Gradisca appunto, una volta trovato marito si sposa e si trasferisce con lui a Battipaglia. La Gradisca veniva chiamata così da tutti i suoi concittadini a causa di una frase pronunciata durante un incontro con il principe; facendosi trovare dal principe in déshabillé sul suo letto esordisce con un “Signor principe, gradisca!”. Tutti i riminesi si riuniscono per il pranzo nuziale che si svolge tra le battute goliardiche dei ragazzi che, affezionatisi a lei, non vorrebbero che se ne andasse. Ritornano anche le “manine” di inizio film, chiudendo così il cerchio dell’anno appena passato. Ancora una volta, è il suonatore cieco a dare ritmo alla canzone con la sua fisarmonica. Alla fine della celebrazione tutti tornano a casa e il film si chiude con una poesia sul Borgo (Rimini) recitata da uno degli invitati al matrimonio, un poeta-muratore:

Anche se il mondo è pieno di roba bella,
pieno di paesi che piacciono di più del Borgo,
appena cade il sole e viene la sera,
seduta su una sedia chissà dove,
piano piano dentro la tua testa,
questo posto diventa il più bel posto del mondo.
Ma come farai…
Ma come farai a stare lontana dal Borgo?

Ecco riassunta in parole quella che è l’anima della pellicola.

Il padrino – Parte II e l’Oscar

Altro picco della carriera di Rota è il 1975 quando, per aver scritto le musiche del celeberrimo Il padrino e de Il padrino – Parte II di Francis Ford Coppola, ricevette l’Oscar per la migliore colonna sonora assieme al collega compositore Carmine Coppola.

Anche in questo caso, musica e immagini si fondono e non possiamo pensare all’una senza associarvi l’altra per necessità. In questa occasione in particolare, la colonna sonora de Il padrino è rimasta non solo nella storia della musica e del cinema ma anche nella cultura popolare; un pezzo come Speak Softly, Love sarà sempre legato nella memoria collettiva all’atmosfera cupa della New York degli anni Quaranta. Anni in cui, complice l’elevato tasso di criminalità, Don Vito Corleone (Marlon Brando) teneva sotto scacco le altre famiglie della mafia italo-americana.

Nino Rota è stato quindi uno dei più grandi compositori italiani del secolo scorso e la sua memoria si mantiene grazie alle sue opere che, ancora oggi, ci parlano di drammi, come quello di Romeo e Giulietta (Zeffirelli, 1968); di commedie, come è il caso di Un eroe dei nostri tempi (Monicelli, 1955); e di avventure, come, per esempio, Jolanda, la figlia del Corsaro Nero (Soldati, 1953).

Soprattutto ci parlano di una grande sensibilità grazie alla quale Rota è sempre riuscito a valorizzare i lavori dei registi con i quali ha collaborato, traducendo in note musicali le loro inquadrature e dando una chiave di lettura delle loro scene madri.

CREDITS

Copertina by Lo Sbuffo

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