Macchiate dalla colpa: rimozione dell’utero in India

L’epoca in cui viviamo è l’epoca della demolizione dei tabù, della volontà di trattare determinati argomenti in maniera più sciolta e libera, senza il bisogno di abbassare la voce e di guardarsi intorno con fare circospetto prima di pronunciare determinate parole.
Nel mondo occidentale questa pratica è ormai affermata. Sempre più personaggi di rilievo incitano il proprio pubblico a esporre senza timori le proprie opinioni su argomenti come droghe, sesso e problematiche lgbtq+. Molti la considerano una leggerezza che scade spesso nella volgarità, mentre per i più giovani è quasi normale trattare con scioltezza determinate tematiche.

Non ovunque, però, quest’apertura mentale è accolta con serenità, tutt’altro. In India per esempio, questo fenomeno compie il percorso inverso. Si passa dalla stesura di un velo di silenzio su certi temi alla presa di decisioni drastiche che si scontrano con i diritti delle persone, in particolare delle donne.
È risaputo come certe culture siano maggiormente arretrate per quanto riguarda la trattazione di alcune tematiche, come quella delle mestruazioni. Queste segnano l’inizio dell’età adulta, oltre che la fine dell’educazione di una ragazzina in India, la quale, nel periodo mestruale, è addirittura costretta a dormire fuori casa e le è proibito l’accesso ai luoghi sacri, in quanto impura.

Le donne indiane, pertanto, hanno deciso di non subire inermi queste ingiustizie. Infatti all’inizio del 2019, milioni di donne hanno preso parte a una rivolta non violenta per l’uguaglianza dei diritti tra i due sessi. Addirittura due di esse hanno “osato” varcare le soglie di un tempio nel periodo del ciclo; tempio che è stato subito sottoposto ai riti di purificazione del caso. La situazione, però, non è cambiata.
E se finora semplicemente era rimasta statica, se la protesta non aveva sortito alcun effetto, ecco che la famosa tempesta che sopraggiunge alla quiete è scoppiata: interventi chirurgici per la rimozione dell’utero alle donne.

Infatti quest’ultime, che hanno meno forza degli uomini, hanno addirittura il problema di perdere sangue dai genitali una volta al mese, con tanto di dolori mestruali annessi. Non avendo la possibilità di perdere una giornata di lavoro, la conseguenza è che rendono molto meno in quei giorni rispetto al solito. Risultato: rallentamento della produzione. Questo succede soprattutto nelle piantagioni di canna da zucchero. Del resto, i proprietari terrieri sono spesso riluttanti ad assumere le donne proprio per il motivo precedentemente illustrato.

Così, migliaia di donne sono state convinte dai propri datori di lavoro a sottoporsi a un intervento per la rimozione dell’utero. Spesso essi sono supportati proprio dai medici, che presentano loro la possibilità di un cancro cervicale. Ovviamente entrambe le parti guadagnano qualcosa da questi interventi: i proprietari terrieri non rischiano un rallentamento della produzione, mentre i medici hanno entrate che variano dalle 20000 alle 40000 rupie a intervento.

Due indagini condotte nella regione di Marathwada, nel centro dell’India, hanno messo in evidenza che il 36% delle lavoratrici nelle piantagioni di canna da zucchero hanno subito l’intervento di rimozione dell’utero, mentre la media nazionale è solo del 3,2%.
Questo significa che senza utero le donne lavorano di più? Questi datori di lavoro hanno forse raggiunto il proprio obiettivo? Nella maggior parte dei casi potrebbe essere, e forse questi medici e proprietari terrieri se ne compiacciono, intascando i soldi sporchi delle sofferenze e dell’ingenuità di molte donne. Ma, allo stesso tempo, alcune di esse dicono di accusare forti dolori alla pancia e alla schiena e di non riuscire più a lavorare dopo l’intervento.

Sicuramente i carnefici di tutto questo non ci perdono nulla, ma le donne? Come si guadagneranno da vivere? Chi restituirà loro la possibilità di diventare madre?
In questi casi è giusto affermare che ci sono cose che non si possono comprare. Resta da chiedersi se sia peggio non potersele comprare per mancanza di mezzi o per l’impossibilità di pagare con il denaro valori come il rispetto, l’umanità e la pietà.

 

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