Lavorare uccide? Le passerelle sono un salto (nel buio)

Lavorare stanca. Lavorare uccide, a volte. E questo avviene anche nel mondo della moda, dove la percezione delle cose è abbagliata dai riflettori e la verità distorta da telecamere e obiettivi.

È della fine del vicino ottobre 2017 l’articolo, pubblicato da numerose testate di rilevanza nazionale e mondiale, che riporterebbe di un caso ormai tristemente famoso. Protagonista del fatto di cronaca è Vlada Dzyuba, di professione modella. Sarebbe quantomeno insolito se questo nome dicesse qualcosa a qualcuno: dopotutto, questa ragazzina dagli occhi scuri aveva solo quattordici anni, ed era entrata nel mondo della moda qualche settimana prima, quando aveva convinto la madre – reporter in una delle riviste del settore – che voleva partire e andare in Cina. Shangai, le aveva detto, era la novità, lì si poteva sfondare e diventare veramente qualcuno. Era l’opportunità perfetta per essere notata da un grande marchio e fare della propria passione la sua professione futura. Questo diceva.

Quel viso da bambina che sorrideva alle macchine fotografiche, come se le stesse squadrando da un pianeta lontano, oggi non si muove più. Vlada è morta, stroncata una volta per tutte dall’eccessivo carico di lavoro al quale era sottoposta. I suoi organi, collassati uno dopo l’altro, non hanno retto alla pressione, il suo cuore si è fermato. Dopo 13 ore di lavoro senza pause. 

Sono stanca, mamma, voglio solo dormire.’

Queste le ultime parole prima di entrare in quello stato di incoscienza dalla quale non si sarebbe mai più risvegliata.

A nessuno importava il fatto che non avesse un’assicurazione medica o del fatto che Vlada, in quanto minorenne, non potesse sfilare per un tempo superiore alle 4 ore a settimana. Non in Cina, dove i termini contrattuali sono spesso poco chiari e le modelle che si imbarcano in queste avventure finiscono spesso per lavorare a ritmo continuo, come automi, senza riposo, fino al collasso. Che poi i media abbiano suggerito la compresenza di un’altra malattia, il fatto che lo stress fisico abbia contribuito alla morte della ragazza è chiaro come il sole: il riposo è un elemento essenziale per il corpo umano. Ma Vlada non poteva fermarsi.

L’autopsia è già stata fatta, il corpo di Vlada ora è in Russia e può riposare. Non in pace. Perché sa, in cuor suo, che sarà da molti dimenticata, che la sua tragedia diventerà, metaforicamente, altra polvere da cacciare sotto il tappeto. È vero, le testate giornalistiche di mezzo mondo si sono alzate gridando allo scandalo e scrivendo una montagna di articoli: ma questa naturale indignazione è stata annullata dal fatto che, a partire da un paio di giorni dopo, nessuno abbia più alzato un dito. Zero aggiornamenti. Forse un paio, di qualche redazione minore. Lasciando morire, di fatto, tutti i pezzi scritti in precedenza. Se prevenire significa poi dimenticare, che senso ha, allora, denunciare? 

L’essere umano ha una straordinaria capacità di ricordare, pari soltanto a quella di dimenticare. Vlada non merita di essere dimenticata. Non lo meriterebbe nemmeno se fosse ancora viva. Nessun’altra lo meriterebbe.

A due anni dall’accaduto vogliamo ricordare la tragedia, ancora.

 

FONTI:

corriere.it

ilgazzettino.it

lifeandstylemag.com

dawn.com

fashionunited.com

repubblica.it

CREDITS:

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