Memorie di un’orsa polare: una favola surreale sulla ricerca della propria identità

Aprii con cautela la borsa, tirai fuori i fogli di carta da lettere fitti di scrittura e li misi sul tavolo senza dire una parola. Il suo sguardo indugiò interrogativo sul mio naso. Quando vide i caratteri sul manoscritto si aggiustò gli occhiali sul naso e lesse il testo. I suoi occhiali avevano lenti rotonde, teneva la schiena curva, china sul manoscritto. Lesse la prima pagina, poi la seconda, Man mano che procedeva i suoi occhi brillavano sempre più affascinati, ma forse era solo la mia immaginazione. Dopo che ebbe letto alcune pagine, si accarezzò la barba e dilatò ampiamente le narici. «L’hai scritto tu?» mi chiese con voce tremante. Annuii.

Il libro di Yoko Tawada si apre come un memoir. Ma non un memoir qualunque, bensì il racconto in prima persona di una protagonista molto speciale: un’orsa polare. Un’orsa capace di leggere, scrivere e comunicare con gli esseri umani senza alcuna barriera linguistica e che, dopo una lunga carriera come stella del circo di Mosca, impugna tra le zampe una stilografica Mont-Blanc e diventa una scrittrice di successo.

Oltre a lei, due sono gli altri protagonisti del romanzo: sua figlia Tosca, orsa ballerina di tango, e suo nipote Knut, affidato al custode dello zoo di Berlino dopo che la madre lo abbandona per seguire la sua carriera artistica.

Le tre generazioni di orsi polari diventano i portavoce di un sentimento potente e tenero al tempo stesso, il sentimento di chi, cercando di integrarsi in un mondo che non è il suo, non smette mai di interrogarsi sulla sua vera identità.

La Matriarca, Tosca e Knut sono orsi che, nel corso delle loro vite, coltivano un rapporto strettissimo coi loro “umani”, che diventano genitori, confidenti.

Knut, abbandonato dalla madre naturale, sopravvive grazie alle cure di Matthias e sotto lo sguardo preoccupato di milioni di persone che vedono in lui il simbolo di un pianeta inquinato e morente. L’istinto materno di Tosca è scomparso, cancellato insieme alla sua natura selvatica: la sua identità ormai è quella di una provetta ballerina, non di una semplice orsa polare.

E allora sarà proprio l’Homo Sapiens, lo stesso che ha “umanizzato” Tosca, a prendersi cura di suo figlio:

È raro che una cosa simile riesca, si è trattato quasi di un miracolo. Ci è voluto un po’ perché comprendessi che quel miracolo è la storia della mia vita. Matthias era un vero mammifero, molto più dei suoi simili, perché mi fece da mamma dandomi da succhiare il latte e anche il tempo della sua vita. Lui era l’orgoglio di tutti i mammiferi.

I tre orsi di Tawada, di cui uno realmente esistito e che ha ispirato questa moderna saga familiare, mettono in scena sentimenti e desideri del tutto umani, tanto che spesso – durante la lettura –  ci si dimentica come la voce narrante appartenga a un mammifero ricoperto di pelliccia bianca e lucente di circa 300 chili.

Con uno stile quasi onirico, tenero e velato dalla tristezza profonda della cattività, l’autrice ci mostra il mondo attraverso gli occhi di chi è diverso, di chi non sa più trovare il suo posto dopo che la sua natura gli è stata negata dai genitori adottivi, di chi fatica a integrarsi e prova il profondo spiazzamento perché è stato strappato per sempre alla sua terra, al punto che non riesce nemmeno a ricordarla.

La Matriarca non ricorda sua madre, ricorda solo Ivan, il suo addestratore, il genitore adottivo che le ha insegnato, in modo del tutto innaturale, a stare in piedi su due zampe.

Memorie di un’orsa polare è un romanzo surreale, una favola giocosa ma anche puntellata di ironia e sarcasmo, in cui le personalità umane e degli orsi si mescolano fino quasi a diventare un’unica specie: la Matriarca, la più umanizzata di tutti, scrive con una stilografica e fa lavoro d’ufficio, Tosca ha un rapporto simbiotico con la sua addestratrice Barbara e comunica con lei in sogno, e infine Knut viene allevato da un essere umano che considera a tutti gli effetti una madre.

I protagonisti non hanno mai visto il Polo Nord, da cui sono lontani chilometri, ma per loro natura, per quanto umanizzata, non smettono di sognarlo:

Volevo sognare nell’aria rinfrescata proveniente dal Polo Nord, volevo vedere di fronte a me un campo innevato che – a differenza delle pagine di giornale su cui erano stampate chiacchiere vane – brillasse di un bianco immacolato. Il Polo Nord dev’essere dolce e nutriente come il latte materno.

Malinconico, sorprendente e delicato, il romanzo di Tawada ci prende per mano e ci accompagna alla ricerca della nostra identità più profonda, della nostra famiglia, naturale o adottiva che sia, e della nostra vera casa.

 


FONTI
Y. Tawada, Memorie di un’orsa polare, Guanda, 2017

 

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