Un animale può fare “arte”?

Se ci risulta facile definire un essere umano come uno “spirito artistico” o un’”anima estetica”, non lo è altrettanto parlare di lui come di un “animale artistico” o di una “creatura estetica”. Alla domanda sulla storia dell’arte, quella delle sue origini sociali e psicologiche, si associa con grave imbarazzo quella sulla preistoria dell’arte, su quella radice ancestrale del processo di espressione umana che non è vincolata, come la prima domanda, a circostanze individuali e occorrenti, ma a sistemi di comprensione del gioco artistico sotto la luce universale di congiunzione tra natura e cultura. Se ci si è tradizionalmente chiesti “che bisogno abbiamo dell’arte?”, ora molti teorici arrivano a chiedersi “che bisogno ha, il nostro organismo evoluto, dell’arte?”. Una domanda sul primitivo, un ricorso all’animale, nel parlare di concetti tanto spesso approssimati allo spirituale, come il “genio” e il “bello”, che spesso se ne dimentica la materna residenza nel gioco di adattamento, evoluzione e trasformazione delle mani umane che reggono il pennello.

Spesso è persino difficile affermare che l’essere umano in generale sia in grado di fare arte. Oltre al debole ma in qualche modo vero dato di fatto per cui non tutti hanno una cosiddetta “sensibilità artistica” o tantomeno una “vena artistica”, si aggiunge la questione per cui in non tutte le comunità umane, indipendente o intersezionalmente sviluppate, esiste qualcosa come l’arte. Basti prendere la definizione classica di Hans Belting di “età dell’arte”- per cui essa sarebbe cominciata solo con la perdita di carattere religioso, culturale e celebrativo nell’attenzione alla mera riuscita formale – per convincersi del fatto che niente di assimilabile a questo insieme è stato scoperto nelle popolazioni africane, amerindiane e oceaniche. L’arte quindi non come prodotto umano, ma addirittura come prodotto occidentale! Questo è infatti un concetto difficilmente isolabile nel reticolo di concetti di “gusto estetico”, “museo”, “mercato”, “lusso”, “umanismo” e altri che ne denotano invece una personalità decisamente nostrana. Poco hanno a che fare le maschere fang e la pittografia yekuana con le figurazioni artistiche europee, con i nostri simboli, col loro caratteristico “disinteresse”, insomma con il loro intrinseco ed estrinseco valore.

Da qui è facile il salto: l’arte non è nemmeno qualcosa di umano, ma qualcosa di generalmente “nostro”, qualcosa che, con Wittgenstein, viene riconosciuto da chi ne sta parlando, ma che non trova i collegamenti necessari con un sostrato culturale e tantomeno biologico-evolutivo. Cercare le fonti delle nostre reazioni al Concerto a tre di Vermeer nell’encefalo ha un senso, ma speculare attraverso dati neurobiologici o neuroevolutivi sulla piena legittimazione e garanzia del fenomeno arte equivale a ridurne violentemente la complessità. Detto ciò, non esiste un’arte animale, preistorica, evolutiva, perché la nozione stessa di arte non permette di essere individuata nell’esperienza osservativa sui comportamenti degli organismi biologici. Se l’arte animale non esiste è perché “animale” è un riferimento biologico, categoria che non pertiene al dominio di legittimazione dell’arte, nonostante l’evidente parentela. È banalmente vero che è stato il cervello biologico di Leonardo a pensare alla Battaglia di Anghiari e la sua mano biologica ad abbozzarla, ma ciò che Leonardo ha creato di “bello”, “sublime” e “geniale” non può essere spiegato dalle sue sinapsi, dal movimento della sua mano e dalle curve dei suoi occhi. È solo l’estetica come disciplina moderna che ci rende possibile parlare di arte per come la intendiamo, è solo il vocabolario estetico – dal più colto al meno raffinato, ma sempre e ugualmente ordinario – che rende conto della nostra spontanea reazione comportamentale a un’opera d’arte. Dice più un’esclamazione spontanea sulla buona riuscita di un quadro che una qualsivoglia dettagliata micrografia del nostro fisico.

Considerare l’esperienza estetica come un “universale biologico” della specie umana o addirittura di più specie animali parenti è una mossa della cosiddetta “svolta naturalistica” delle scienze umane che, sebbene spesso utile, riconosce difficoltà legate all’entità logica, ontologica e linguistica del soggetto che si sta trattando – in questo caso gli oggetti dell’età dell’arte. Prendiamo ad esempio le serie di dipinti realizzate dallo scimpanzé Congo sotto la guida di Desmond Morris. Persino il solo fatto di considerare le opere di Congo come “arte” è qualcosa di storico e arbitrario. Ma questo vale persino le opere di Kandinskij; nessun’abilità biologica fondamentale sta alla base dell’atto fisico di Duchamp di capovolgere un orinatoio, è anzi una cosa che potrebbe fare persino uno scimpanzé. Ma l’abilità di fare arte non è l’abilità di muoversi in qualche modo o di essere fisiologicamente disposti a qualcosa, bensì l’abilità di suscitare sentimenti ed occasionalmente eruzioni espressive nel fruitore (“bello!”, “incredibile!”…).

L’arte è persino in grado di distaccarsi dal binomio autore-fruitore ed essere qualcosa che si valida semplicemente nella testa di uno “spirito”, come per un’intenzione artistica o una scintilla geniale, magari abortita o irrealizzata. Ma possiamo andare ancora più indietro nella definizione delle qualità essenziali dell’arte: resterà, essenzialmente e generalmente, il fatto che l’arte non ha bisogno di realizzatori biologici (“animali”) per esistere in quanto se stessa.

Il fatto che, secondo Darwin, il sostrato biologico del gusto estetico sia legato a “low powers of reasoning” e che quindi sia proprio persino di uccelli e mammiferi inferiori, non porta necessariamente all’emergere dei risultati sentimentali e addirittura spirituali del linguaggio artistico. La pratica estetica non sta nei piumaggi degli uccelli del paradiso o nei canti dei cigni, ma nella capacità dello spirito umano di render conto di questi fenomeni come “belli”.


Fonti:

P. D’Angelo, Estetica, Editori Laterza, Roma, 2011

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