Nella mente di un trafficante libico di esseri umani, dove la sopravvivenza non ha pietà

“Mi chiamo Khaled, il mio nome significa immortale.”

Il nuovo libro della giornalista Francesca Mannocchi racconta il lavoro quotidiano e la vita di un trafficante di esseri umani libico in Libia: Io Khaled vendo uomini e sono innocente, edito da Einaudi. Lo fa attraverso gli occhi e le parole di Khaled, che commercia la propria merce dalle coste africane del Mediterraneo verso l’Europa, e poco gli importa che essa arrivi a destinazione sana e salva. Gli esseri umani sono la merce, che può far diventare ricco un libico, al pari del petrolio. Il libro è a tratti crudo, duro perché così è la vita, quanto dei predatori quanto delle prede, ognuno a suo modo.

Le prede sono l’oro nero” dei libici, ossia i “negri”, come li chiama Khaled nell’unico diretto linguaggio che sembra conoscere. Eritrei, nigeriani, somali, sudanesi, per lui non fanno alcuna differenza, sono merce di scambio: la vita di un uomo in cambio di soldi, tanti. La realtà è che la vita in Libia non vale niente: tra corruzione, sparizioni a fine di estorsione e lotte di potere delineano un paese in balia di sé stesso, dove il valore della vita viene stabilita dai mercenari.

Poi ci sono i siriani, la merce più preziosa e pertanto relativamente privilegiata. Costoro scappano dalla guerra e sono disposti a pagare tutto ciò che hanno pur di arrivare in Europa, dove sanno di avere possibilità di ottenere lo status di rifugiato e congiungersi con altri parenti e amici. La loro elevata istruzione, nella maggior parte dei casi, li rende una categoria a parte, a differenza degli africani generalmente non istruiti che scappano dalla fame. I siriani si guadagnano così il diritto di poter dormire in posti relativamente più protetti, di avere una maggior razione di cibo e infine, di poter indossare il salvagente durante le traversate, nel caso la barca affondi (come purtroppo molto spesso accade). Loro non vengono toccati dai trafficanti, le siriane non vengono violentate. In altre parole, la loro prigionia è più “sopportabile”.

Sarà poi il mare a decidere se prendersi le loro vite, il mare non fa sconti a nessuno.

“Il mare chiede la sua parte.”

Per quanto riguarda gli africani invece, l’autrice racconta nel libro, tramite la voce del suo personaggio Khaled, come i trafficanti (anche tra di loro c’è una gerarchia, in cui Khaled ricopre il ruolo paragonabile ad un manager che ha l’ultima parola) si rechino nei centri di detenzione e, corrompendo il direttore del penitenziario, si facciano consegnare, in cambio di denaro, un gruppo di persone per metterli sul prossimo barcone verso l’Europa.

“Sono venuto qui a prendere un po’ di africani.”

Spesso questi ragazzi, prelevati come maiali pronti per il macello, vengono torturati e minacciati dagli stessi trafficanti così da spingerli a mandare più soldi dalle famiglie nel paese d’ origine, pur di partire. Le donne invece, spesso vengono brutalmente abusate all’impulso del momento e ributtate poi nelle celle. Non c’è spazio per la pietà nell’inferno. Molti di loro sono malati di scabbia o di una semplice dissenteria che però può essere letale, per la mancanza di condizioni igieniche. Il cibo è razionato al minimo, morto un africano tanto ne arriveranno altri. Khaled racconta di quella volta in cui si è imbattuto in una cella putrida con all’interno solo bambini e minorenni non accompagnati, i quali si avvicinano alle sbarre chiedendo acqua, cibo, libertà.

“Qui dentro siamo come polli nelle gabbie, signore, non usciamo mai.”

“Qui le persone muoiono, siamo schiavi signore, schiavi.”

“Oggi per esempio sono contento perché sono ancora tra i vivi e non tra quelli morti.”

Khaled all’uscita non riesce a trattenere il vomito.

L’eredità di Gheddafi

Attraverso le parole di Khaled non viene solo delineato un quadro del presente, ma se ne cerca una ratio e una logica attraverso il suo sguardo ancorato al passato. Il regime presieduto da Muammar Gheddafi Gaddafi per 41 anni ha lasciato ai suoi connazionali troppe cose difficili da scordare. Le esecuzioni pubbliche negli stadi facevano da monito e da indottrinamento per un asservimento popolare che non prevedeva regole certe. Quelle scene Khaled, che all’epoca era un ragazzino, le ricorda bene. Il terrore psicologico, ancora prima di quello fisico, del regime serviva ad imporre un’ideale rettitudine del perfetto libico, a schiacciare le masse.

Che ne sanno di democrazia intere generazioni di libici?

Il Fratello Guida (Gheddafi) è come se non se ne fosse mai andato dalla Libia, e al suo posto attualmente ci sono le milizie che tra armi, violenza e un potere corrotto, continuano a schiacciare le masse. I figli della dittatura sono questi. Non è bastata uno zampillo di rivoluzione in un paese il cui il potere lo fa la strada e che ha sostituito un despota con il caos. Khaled ricorda da una parte gli insegnamenti del nonno, che appare come un saggio, amante del silenzio delle dune del deserto, che non amava Gheddafi e non lo rispettava, e dall’ altra parte il padre, che non amava Gheddafi ma ne aveva paura e quindi a lui si piegava, pur di sopravvivere.

Vuoi sapere “se faccio partire i negri di notte? Si lo faccio.

Se compro gommoni per 4000 dinari l’uno e ci metto sopra cento negri? Si lo faccio.

Vuoi sapere se mi interessa se i negri muoiano in mare? Certo che mi interessa, carico anche i salvagenti, e sono uno dei pochi.

Vuoi sapere se corrompo qualcuno per fare affari migliori? Si, come tutti […] pago i guardiacoste, i funzionari, ho uomini ai ministeri giusti, so come far chiudere gli occhi ai controllori, e come farli contenti.

I negri sono la nostra garanzia di liquidità […] ci sarà sempre un gruppo di africani che vuole partire. Volevi una confessione? Ce l’hai, mamma.

“Il prezzo più alto lo pago io restando” ed ecco perché: ““Mi chiamo Khaled e sono un trafficante. […] e sono innocente.”


FONTI

Libro di Francesca Mannocchi “Io Khaled vendo uomini e sono innocente“, Einaudi 2019.

ilfattoquotidiano.it

CREDITS

Copertina: foto della redattrice

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