Su orizzonti precari di linguaggi universali. Riflessioni da “Brave con la lingua”

Nella prefazione al volume Brave con la lingua – come il linguaggio determina la vita delle donne (Autori Riuniti, 2018) la curatrice Giulia Muscatelli ci offre uno spaccato di conversazione quotidiana, da bar, tra donne. Un gruppo di amiche che chiacchiera di Tinder, del sesso mancato, del barista dietro al bancone dall’audacia esaurita in uno sguardo. Queste pagine introduttive trasudano una voglia decisa di rivendicare la natura delle vere, ma spesso tacite, conversazioni tra donne, della possibilità viva di parlare anche di rossetti, di addominali, di «cazzo».  

«Una conversazione del genere potrebbe ricrearla solo una donna» perché, aggiunge Giulia Muscatelli, «del femminile c’è scarsissima narrazione realistica». È da questo presupposto, germe embrionale, che nasce e si ramifica Brave con la lingua, una raccolta di racconti scritti esclusivamente da donne. Quattordici autrici dalle diverse geografie biografiche ma accomunate dalle stesse vicissitudini uterine, dal condiviso bisogno di dire in modulazioni libere e aperte, per reagire, tirando i bordi, spalancandoli, a quelle parole «chiuse», incudini a incastro per il genere femminile.

Permalosa è Eleonora «elettrica come il cielo in tempesta, suscettibile come il tuono» in Santa Cristina Vergine di Francesca Manfredi; piagnona è la protagonista, dalla lacrima facile e avvezza alla bottiglia, raccontata da Elena Vervello in Rane: «Che fai? Piangi di nuovo?»; sempre brava è stata Livia – «Brava la mia birilla» – madre, moglie, lavoratrice dai passi perfetti, risposta ogni volta corretta a «Tutto quello che vuoi» di Silvia Pellizzari.

Scrittrici che scoperchiano i loro contenitori ermetici di determinazione identificativa indotta, attraverso la forza della parola, della lingua. Sono storie costruite – forse a volte scolpite con scalpello, seguendo un modello dalle linee un po’ artificiose – per smentire e per ribellarsi verso ciò che prima nella forma, e poi nella sostanza, pre-definisce. Le etichette proposte sono formulate e appiccicate non solo da un contraltare maschile ma, segno fortunato di una visione più capillare, anche da altre donne, amiche, parenti o da strepiti e mormorii popolari. Nel racconto La casa di Irene Roncoroni, l’amica ballerina italiana, emigrata in Francia, e decisa ad aprire una scuola di ballo nella biblioteca impolverata e rovinosa, è subito additata dagli abitanti locali: «Ma non puoi avere una vita normale e fare quello che fanno tutti gli altri?».

Quello della pre-determinazione sembra però un discorso molto ampio e complesso, di cui non solo il genere femminile si può dire affetto, ma più che altro diretto verso tutto ciò che esula dal retto binario eletto a norma, che non risparmia niente e nessun deraglio e di cui forse non possiamo fare a meno, ma semplicemente ammorbidirne e limarne pazientemente i confini, dal momento in cui siamo sostanziati da un caleidoscopio di sguardi, da un groviglio di narrazioni, interne ed esterne.

Il progetto Brave con la lingua si incontra e si sovrappone con un’altra discussa e spinosa questione.  Ora più che mai, grazie anche a un panorama letterario contemporaneo firmato da tante giovani e talentuose autrici, le donne stanno dimostrando di essere veramente brave con la lingua; presupposto che però spesso cade e si nega di fronte a una realtà di critica e di lettori che insiste a incasellarle, soffocarle, nella ormai stantia e polverosa categoria di “letteratura femminile”. Brave con la lingua  tenta di muovere un passo in favore di tale svecchiamento, ponendo un quesito interessante: è possibile parlare di una lingua – e quindi di una letteratura – universale? Una delle vie percorribili è la negazione di una specificità di genere in vista di una parità condivisa?

Questa non è una raccolta di scritti femminili, questo è un libro.
Quelli che leggerete non sono racconti di donne, sono storie di esseri umani.

Sorpassare una – insuperabile? – dicotomia di genere, pur prevedendo un vario e vasto specchio di liquidità, si rivela però un tentativo di facile illusorietà. Per affermare il femminile è necessario negarne lo stigma, dando così per scontato il carattere posticcio della pre-definizione? A tal ragione, è forse più auspicabile chiamare in causa l’abitudine, un’abitudine dagli echi remoti e radicati in una storia occidentale – e non solo letteraria – indiscutibilmente patriarcale. Educati per secoli da Padri a leggere Padri , non c’è forse da meravigliarsi dell’ancora attuale resistenza e diffidenza verso una produzione femminile, a cui siamo stati digiuni per intere epoche, e alla quale non possiamo sottrarre una indiscutibile specificità. L’irrealtà della proposta di una lingua universale forse si compensa con l’abitudine e la frequentazione di un nuovo linguaggio, che gode ancora di freschezza, e la cui chiusura, ai margini, può rivelarsi oggi un punto di forza per nuovi punti di vista e forme inedite di linguaggio.

 


FONTI

Brave con la lingua, a cura di Giulia Muscatelli, Autori Riuniti, 2018

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