comfort zone

Quanto è difficile uscire dalla comfort zone?

È sempre difficile uscire dalla propria comfort zone. Sicuramente lo è per tutti: lo è, banalmente, per la persona comune che non ha il coraggio di cambiare look con un taglio di capelli diverso, ma lo è anche per un artista. Forse (la “persona comune” mi permetterà questa supposizione) per un artista è estremamente più difficile. Ma soprattutto, quanto è difficile poi per un ascoltatore accettare un cambiamento, nel momento in cui questo trova la strada per venire alla luce?

È un po’ il meccanismo che scatta in un lettore quando ha voglia di riprendere in mano il suo vecchio libro preferito: tutti preferiscono (almeno a volte) ritornare sulla vecchia, già conosciuta e confortante strada invece che buttarsi a capofitto in una novità. Questo processo non risparmia nessuno, nessuno ne è indenne. Talvolta stravolgimenti vari della vita fanno sì che nascano  nuove esigenze, dunque si può ottenere l’effetto opposto: invece di nascondersi nella routine, si ha bisogno di palesare con prepotenza una nuova parte della propria personalità. E allora, a quel punto, addio alle care vecchie abitudini.

La dinamica della metamorfosi di un artista, però, è molto più complessa e ha molti più effetti di quelli che potrebbero esserci per una persona comune. Innanzitutto, il cambiamento può avvenire per motivazioni personali: non è difficile immaginare che una persona cambi, anche consistentemente, i propri gusti nel corso della propria esistenza. Ma possono esserci anche esigenze discografiche, ovvero modifiche dettate dall’etichetta dalla quale si è rappresentati (e non è poi così difficile da immaginare anche questo, soprattutto se si considerano le policy della maggior parte delle major).

Se si vuole un esempio, basti pensare al lento ma inesorabile mutamento della band inglese Bring Me The Horizon nel corso della propria carriera. Sicuramente a oggi si è arrivati all’apice: il pubblico è esattamente spaccato in due.

Sesto album in studio dei Bring Me The Horizon, amo

Come anche il frontman della band Oliver Sykes ha affermato:

I love how much this record is polarising peeps. Hasn’t been like this since we released Suicide Season. A lot of kids were quick to shit all over it because it was something very different from the scene we was in.

Infatti il debutto della band con il primo album in studio, Count Your Blessing, è catalogabile genericamente come deathcore. Invece il secondo album in studio, Suicide Season, ha creato grande scalpore, essendo un album metalcore. Il terzo album in studio, There is a Hell, Believe Me. There is a Heaven, Let’s Keep it Secret, a sua volta presentava delle influenze sempre più sperimentali rispetto al genere di riferimento, e così via. Fino al sesto album in studio, amo, pubblicato il 25 gennaio 2019. Il disco ha creato una varietà incredibile di opinioni. Ma al di là delle recensioni più diverse, stupisce anche la foga e la rabbia di alcuni dei fan, che hanno deciso di sfogarsi attraverso i commenti sui canali social della band.

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Molti fan, abbastanza comprensibilmente, non accettano l’album a causa delle sue tracce dalle influenze così variegate tra loro e così distanti da ciò che i Bring Me The Horizon erano all’origine. Numerose recensioni, infatti, li hanno catalogati nei modi più vasti: elettropop, pop rock, alternative rock e chi più ne ha più ne metta. Quel che è certo è che si tratta di uno stile ben differente dagli esordi della band.

Sykes continua, nelle sue affermazioni riguardo ad amo:

I 100% support and encourage people’s true opinions. And if you are someone who’s only a fan of metal and hardcore with no exceptions, you are well within your right to hate this. But if you are open to more, all I’m saying is if you judged this record after one listen, maybe go give it another two. I’m pretty confident you’ll surprise yourself.

Ora, il punto è proprio quello che espone Oli: chi ascolta unicamente metal e hardcore sicuramente sarà indignato da questo cambiamento così grande e non riuscirà a dare una chance ad amo. Il suo appello è quindi a tutti gli altri fan. È un po’ come se egli stesse cercando di comunicare quanto, all’interno della band, questa evoluzione sia stata importante e stesse cercando di far sì che le persone non si fermassero all’apparenza. Le motivazioni che possono aver portato i BMTH a un cambiamento tale, del resto, possono essere le più diverse: dal gusto personale alla volontà di raggiungere un pubblico sempre più ampio (è indubbio, infatti, che il pop rock/il rock elettronico siano più facilmente fruibili del deathcore). D’altro canto, è anche vero che non ci si deve necessariamente gettare su un’accusa di presunta “commercializzazione“, come è solito che accada in questi casi.

È naturale, umano, provare un po’ di iniziale diffidenza nei confronti di qualcosa che delude le proprie aspettative. Ogni volta che un artista pubblica un proprio lavoro vi è un elevato rischio di mancato soddisfacimento delle previsioni. E, chiaramente, quando vi è un’evoluzione imponente verso un altro genere o un altro stile, ciò che un “grande” ascoltatore deve fare non è accettare ciò che gli viene proposto in modo totalmente acritico. Ma egli sicuramente non dovrebbe nemmeno fermarsi alle apparenze e negare del tempo alla novità per tentare di comprenderla.

Forse, chi ha criticato così tanto amo, potrebbe dargli una chance in più. E non perché la maggior parte delle recensioni al riguardo sono positive. (Le recensioni sono sì utili a indirizzare un potenziale ascoltatore verso qualcosa che può interessarlo, ma i canoni estetici non sempre coincidono con il gusto personale.) Ma perché tutti hanno il diritto di cambiare, di evolversi. Anche gli artisti. L’uomo è perfettibile, come diceva Rousseau (anche se lo diceva in contesti ben differenti e con messaggi ben differenti da una metamorfosi musicale). Ma da lui si può comunque imparare qualcosa anche in questo caso: negare a priori la possibilità che l’uomo possa trasformarsi, significa negare l’appartenenza stessa dell’uomo alla propria specie.

Ergo, non snaturiamo i Bring Me The Horizon. Diamogli una chance. E non lo diciamo noi, lo dice Rousseau.

 

 

 

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