Tra meraviglia e stupore al Parenti, la magia del Teatro Noh

Una calda notte d’estate. A Milano, il Teatro Franco Parenti ha ospitato un evento straordinario. Oriente e Occidente si sono uniti, le tradizioni si sono confuse e mescolate, le culture hanno dialogato in un’atmosfera sublime. In scena la tradizione del Teatro Noh Giapponese. Nessun modo migliore, dunque, per terminare una lunga stagione teatrale. In scena, oltre agli attori della compagnia, anche la cultura e le usanze di un intero paese, il Giappone appunto. In sintesi, una serata all’insegna della bellezza e dello spettacolo. Assistere a un evento di tale portata non può lasciare indifferenti. La sensazione è quella di essere parte, in silenzio, di un rito sacro e privato. Allo stesso tempo però, una percezione di compartecipazione e gioia condivisa. L’impressione di essere inclusi in qualcosa di enormemente grande e potente.

Una precisazione: non si deve incorrere nell’errore di associare il Teatro Noh Giapponese al teatro Europeo. La messa in scena e l’organizzazione dello spettacolo, infatti, sono lontane anni luce dalla coscienza occidentale. Innanzitutto, la tradizione orientale vuole che lo spettacolo teatrale inizi prima dell’entrata in sala. Per questo, prima della performance, la compagnia ha offerto una dimostrazione del rituale del tè. Un ottimo modo per introdursi a piccoli passi in un clima mistico e fuorviante. Poi, nei Bagni Misteriosi del Teatro, le due performance: Hagoromo e Neongyoku.

La cerimonia del tè

Per cominciare è bene sottolineare il valore di ritualità che la cerimonia del tè assume in Giappone. Il Cha No Yu (così il nome giapponese) è un’arte e una disciplina, che serve ad alimentare la pace. La cerimonia assume tutt’altro sapore rispetto all’”ora del tè” occidentale. Si colora di spiritualità e meditazione filosofica. Il tempo del tè è quindi un rito e, come tale, deve seguire delle ferree regole. Okakura afferma:

Quando si preparano le foglie di tè, sono necessarie un’affinità particolare con l’acqua e il calore, una tradizione di ricordi da evocare, un modo tutto personale di offrire una storia.

Il tè Matcha

Il tè coinvolto nelle celebrazioni è il matcha, una qualità di tè verde. In particolare, i giapponesi sono soliti utilizzare il koicha, il “tè denso”. In effetti, l’obiettivo è quello di creare un impasto verde, non una sostanza liquida, tipica della cultura occidentale. La lavorazione del matcha è piuttosto lunga: le foglie verdi, molto pregiate, vengono pressate attraverso il processo di “macinazione a pietra“. Il tè viene raccolto foglia per foglia e vengono privilegiate le parti più tenere della punta. Infine, diversamente da qualunque altra qualità di tè verde, il matcha non viene filtrato. La preparazione avviene infatti per “sospensione“. La polverina viene mescolata all’acqua grazie a un chasen, un frullino in legno di bambù. Tra gli oggetti coinvolti anche una ciotola e un mestolo sottile.

La tradizione

La cerimonia nacque nel XV secolo grazie al monaco Murata Jukō e fu poi modificata e codificata da Sen no Rikyū. Quest’ultimo stabilì i quattro principi su cui la cerimonia attualmente si fonda: purezza, armonia, rispetto e tranquillità. Si comprende facilmente, dunque, quanto il rito rappresenti un momento di raccoglimento tanto per il corpo, quanto per l’anima. Nella tradizione orientale infatti, queste due entità non sono distinte, ma si compenetrano e collaborano alla salute dell’individuo. La tradizione, discendente dai monasteri buddisti, era praticata presso la classe dei guerrieri. Questi, infatti, ricevevano dalla cerimonia energia e rilassamento. Bere il tè significava perciò preparare il cuore alla battaglia.

La cerimonia

La cerimonia si svolge in una stanza specifica, appositamente allestita. L’arredamento è costituito da pergamene e fiori, in una disposizione calibrata. Tra le decorazioni, molto diffuse sono quelle legate a tematiche naturali. Il colore verde del tè matcha, infatti, si fonde piacevolmente con il verde brillante della natura. Ai lati le porte sono basse: l’obiettivo è che gli invitati si inchinino all’ingresso. Il gesto dell’inchino rappresenta devozione e ringraziamento. Perciò il lieve inclinarsi della testa si realizza anche poco prima di bere il tè. Tutti gli strumenti utilizzati devono essere puliti prima della cerimonia. Ciò mima il processo di depurazione dell’anima e predispone il partecipante al rito.

Il tempo della cerimonia è ben scandito. Una volta inginocchiati sul tatami, ai partecipanti viene offerto un dolce. Durante la celebrazione presso il Teatro Franco Parenti è stato offerto un dolce della regione di Kanazawa: una sostanza bianca e solida, decorata con foglie dorate, simbolo di sole e fuoco. Durante la cerimonia i dolci devono essere consumati prima di bere il tè. Questa è appunto una bevanda depurativa e deve essere gustata in solitudine. Il rito del tè, in Giappone, ha la funzione di predisporre l’animo del partecipante a grandi eventi. Così, al Parenti, la sua funzione è stata quella di condurre l’animo dello spettatore all’interno del clima mistico della performance teatrale. Il tè depura gli animi e predispone lo spirito all’accoglimento di arte e bellezza. Come afferma un proverbio giapponese infatti:

Se un uomo non ha tè in sé, è incapace di comprendere la verità e la bellezza.

Il Teatro Noh

La storia

Il Teatro Noh è la forma di teatro più antica del Giappone, risalente al XIV secolo. La nascita è dovuta all’arte di Kan’ami Kiyotsugu e al figlio, Zeami Motokiyo. Il primo, sacerdote e drammaturgo, fondò una compagnia e, con essa, studiò concetti estetici alla base del futuro teatro giapponese. Il secondo invece compose parecchi drammi, creando un repertorio ricco e ponendo le basi per lo sviluppo drammaturgico successivo. Ciò portò al successo e nel XVI secolo esso si legò ad altre discipline performative. Al centro vi è sicuramente la danza, espressione della cultura giapponese. Inoltre gli spettacoli vennero via via arricchiti con oggetti scenici. Essi furono lavorati e impreziositi al punto da diventare vere e proprie opere d’arte. Tra essi spiccano le maschere e i costumi sfarzosi.

Il dramma Noh è composito. L’intreccio di danza, musica, attualità e trama non è casuale. L’impressione, anzi, è di assistere a una rappresentazione fluida: ogni elemento è imprescindibile per la comprensione dello spettacolo. Il ritmo è tradizionalmente lento e cantilenate. Sconcertante per uno spettatore occidentale. L’idea di “energia dell’attore“, innanzitutto, viene stravolta. L’apparenza è quella di una “energia statica”. Gli attori infatti sono quasi immobili sul palco, o si muovono con gesti ampi e lenti. L’energia dunque non viene trasmessa attraverso il movimento del corpo o l’utilizzo di una voce marcata. Sembra che la ricerca si muova verso un profondo scavo dell’interiorità: un corpo immobile, ma colorato e brillante. L’energia fluisce attraverso uno scambio continuo, nel rapporto attore-spettatore.

I personaggi e le maschere

Il Teatro Noh comprende quattro categorie di attori. L’attore Shite compare in scena sotto forma di uomo e di fantasma, in due momenti distinti. Waki è la controparte al ruolo di Shite: i due personaggi, di solito, agiscono come una coppia sulla scena. Kyogen sono gli attori che si esibiscono in discipline diverse (anche comiche) durante la rappresentazione Noh. Infine i Hayashi sono i musicisti: suonano il flauto o il tamburo.

Il protagonista (lo Shite) recita tendenzialmente con la maschera (omote). Essa consente un’immediato riconoscimento del personaggio sulla scena, anche ad ampie distanze. Tra le maschere, tipiche sono le raffigurazioni di dei, guerrieri, donne. Ognuna è ben caratterizzata da un’espressione: ciò consente di trasmettere emozioni e passioni, nonostante l’apparente immutabilità. Le maschere sono intagliate con cura: ciò permette all’attore di modificare lievemente le espressioni del viso durante la rappresentazioni. In questo modo, a seconda della luce o dell’inclinazione della maschera, un’espressione di disgusto si può facilmente trasformare in collera o dolore. Un’abile maestria permette quindi estrema malleabilità. Nel Teatro Noh infine la maschera assume una connotazione mistica: essa è mediatrice dell’aldilà.

La messa in scena

Anche il Teatro Noh, come la cerimonia del tè, è un rito. Le usanze vengono tramandate tra le generazioni e la preparazione attorale coinvolge i bambini fin dai primi anni di vita. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la preparazione di uno spettacolo non avviene a opera dell’intera compagnia. Gli attori, infatti, studiano individualmente e provano insieme solo pochi giorni prima della messa in scena. Differentemente dal teatro occidentale, l’obiettivo è sviluppare una profonda coscienza individuale. Il “lavoro di squadra”, tanto fondamentale nelle nostre società, è qui subordinato a una ricerca meticolosa del se e della perfezione personale. Il profondo lavoro di ricerca giapponese conduce infatti a una naturale disposizione al lavoro con gli altri.

Le rappresentazioni di Teatro Noh avvengono tradizionalmente in stadi, formati da padiglioni. La scena è semplice ed essenziale e il palco è fatto di legno di cipresso giapponese. Quest’ultimo è rialzato rispetto agli spettatori: L’obiettivo è infatti posizionare, sotto, dei vasi che possano servire da amplificatori. L’unico elemento scenico strutturale è un dipinto raffigurante un albero di pino. Le interpretazioni riguardo questo oggetto scenografico sono svariate; si ritiene che il riferimento sia al rituale shintoista.  Il palco è, per i giapponesi, il collegamento tra lo spazio naturale e divino. Gli attori dunque sono quasi dei “medium” che realizzano il contatto tra i due mondi attraverso l’esperienza del dramma. L’essenzialità della messa in scena mette in risalto i costumi degli attori: sono stravaganti e imponenti alla vista, in particolare quello del protagonista.

Neongyoku

La prima performance offerta al Teatro Franco Parenti è Neongyoku. Appartiene al genere del Teatro Kyogen, una forma espressiva che condivide la stessa origine del Teatro Noh. Di solito il Kyogen viene utilizzato come forma di intrattenimento tra gli atti. Per questo assomiglia molto al “dramma satiresco” del teatro greco. L’obiettivo è suscitare allegria e allentare la tensione provocata dai drammi Noh. I personaggi in scena sono di ascendenza popolare e le vicende rappresentate sono semplici e leggere nella trama. Gli abiti indossati appartengono alla quotidianità e le battute sono salaci. Spesso vengono parodiati frammenti di riti giapponesi.

Al Parenti, la performance Neongyoku era rappresentata da due soli attori. La trama è semplice: un personaggio desiderava che l’altro cantasse per lui una canzone. Le strategie messe in atto sono quelle tipiche della coppia comica. I due personaggi basano infatti la conversazione sulla difficoltà di comprendonio e malintesi. Tuttavia a sviare lo spettatore occidentale è il ritmo: lento e cantilenante. Oltre al ritmo, anche i movimenti sono studiati con estrema precisione. Sono essenziali e lenti, mai secchi o improvvisi. Comunque, nonostante la particolarità dello spettacolo, la comicità ha raggiunto gli spettatori. Gli attori non portavano maschere e lo spettacolo si basava sostanzialmente su una lunga conversazione. Entrambi erano infatti immersi in un palco vuoto.

Hagoromo

Il secondo dramma, più lungo del precedente, appartiene al Teatro Noh. L’autore è sconosciuto, ma si ritiene che non sia stato scritto da Zeami. La leggenda Hagoromo narra del rapporto tra un pescatore e una Dea. L’uomo si impadronì di un drappeggio trovato su un albero, inconscio del fatto che appartenesse alla creatura celeste, una tennin. Così la donna pregò per la restituzione, ma in cambio fu costretta a danzare per il pescatore.

Il dramma è recitato, come da tradizione, dai due personaggi protagonisti: la Dea e il pescatore. La Dea è provvista di maschera e possiede un abito sfarzoso e imponente, di colore rosso. Il pescatore invece ha un costume verde ed è privo di maschera. Forse i due colori complementari sottolineano proprio l’appartenenza dei due personaggi a mondi distinti e tradizionalmente non comunicanti tra loro. Ai margini del palcoscenico è posizionato il coro. Questo interviene per dare spiegazioni o raccontare il contorno del dialogo. Infine, a completare il quartetto, i musicisti, che accompagnano la danza della Dea con tamburi e flauti.

La danza non è una coreografia, è perciò lontana dal gusto per la performance degli occidentali. Si caratterizza per lenti movimenti del corpo, soprattutto degli arti superiori. Questi sono chiaramente accentuati dall’ampiezza del vestito. Si può parlare di “danza statica”, un’espressione quasi ossimorica. Anche la musica non è melodica. Sembra piuttosto ritualistica. La magia della performance giapponese è incrementata dalla location. Gli spettacoli, infatti, si sono svolti presso i “Bagni Misteriosi” del Teatro Franco Parenti. Il palcoscenico è stato allestito a ridosso dell’acqua: così gli attori sembravano agire in uno spazio indefinito, al confine tra la terra e il mare.

Assistere a un evento di Teatro Noh è una terapia per l’anima. Un’esperienza mistica, difficile da verbalizzare ma molto da percepire. Un flusso di emozioni continuo, uno scambio di energie ineguagliabile. L’evento del Teatro Franco Parenti si è presto trasformato in un’occasione di scambio culturale e di intersezione tra i due mondi complementari per eccellenza. Oriente e Occidente, grazie allo spazio del teatro, si sono uniti in un dialogo armonico e surreale.

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