Il film “Arrivederci, professore”: dove si è parcheggiata la cultura

È lo stesso establishment politico e culturale dell’Italia contemporanea che ci dimostra, senza troppi vezzi d’interpretazione, una lotta campale senza fondo e senza fine tra le fazioni opposte dei professoroni e dei… pecoroni? capre? ignoranti? Molta violenza metaforica e poca maturità morale per raccontarsi a vicenda: da una parte i detentori della Cultura, di tutte le culture, gli iniziati al culto delle proprie conoscenze, starnazzanti soluzioni assolute dai podi di un crudele ma nascosto disinteresse; dall’altra gli altrettanto sordi campatori dell’Italia occasionale, quella presentata, dell’egoismo radicale e della fiducia nel bieco caporale di turno. Entrambe figure mistiche, ermetiche: da una parte i dotti Bellarmini di un sapere e di una tecnica purificatrice, ma, francamente, troppo goffa, interessata e lineare; dall’altra i volubili pupilli di un maghetto sciocco e parlatore, che, sapendo trasformare l’acqua in acqua calda, pretende d’imparare a trasformare il fango in oro (che poi resta solo fango putrefatto).

Un film che, in questi giorni, sta riempiendo a malapena le sale dei cinema italiani è la perfetta e involontaria analisi, in questo mondo di opposti, in questo binomio irrisolvibile di erudizione ed ignoranza, di ciò che resta della cultura, della bellezza, delle arti e della divulgazione scientifica. Arrivederci, professore fa della sua pretesa iconica un messaggio caricaturale, mettendo in scena il frequente imbarazzo di quella realtà che, spesso, fa riflettere più di una cinica finzione. Il Professore, Richard – un Johnny Depp con la barba finta, un professorone a cui sfugge dalle mani ciò che paventa – rappresenta il cavaliere di quella cultura che, per la sua pretesa di ineffabilità, resta egualmente lontana dagli ignoranti che la vorrebbero apprendere e dagli eruditi che, tesaurizzandola, non fanno che corromperla e depurarla. Un film che rappresenta la colpa dei secondi, giustificando l’ineleganza dei primi, ma che racconta di come oggi la brutalità culturale (estetica, etica, scientifica…) sia la soluzione spontanea di una vita comune a tutti.

Tutto si svolge nei pressi di un college americano. Richard, rinomato professore di … lettere? filosofia? retorica? viene a sapere di avere un cancro in fase terminale. Ad un’iniziale e non molto emozionante sconforto, segue una banale presa di coscienza hippie: la vita è breve e va vissuta appieno, quindi in uno svogliato non rispetto di sé, degli altri e delle norme morali. God’s watching you, so give him a good show. La famiglia – moglie catto-fascista, artista che tradisce esplicitamente il marito per far istallare le proprie opere, e la figlia, banalmente disagiata, amante del papà buono e lascivo e odiatrice provetta della madre femmina e isterica – viene lasciata all’oscuro della malattia, e così tutte le persone vicine al protagonista. Solo il migliore amico, Peter, viene a saperlo, ma solo per intercedere con il cattivissimo rettore del college per far ottenere a Richard un anno sabatico, che sarebbe stato usato per non curarsi, morire lontano da tutti e… scrivere “il nuovo grande romanzo americano”. Ruolo centrale, ai fini della storia e del titolo del film, dovrebbe essere la classe di studenti che segue il suo corso. Nella prima lezione dopo la triste notizia, il professore mette in atto una sceneggiata banale e un po’ stucchevole: chiede di lasciare l’aula a tutti quegli studenti che non rispettano i suoi canoni di Americano Alpha (vale a dire femmine brutte, indossatori di tute, lettori svogliati e aspiranti a un’educazione contenutistica) e fa sì che restino solo venditori di marijuana, personaggi di bell’aspetto, indossatori di jeans e, con qualche sorpresa, un paio di studentesse in maglioni morbidi e capelli legati professanti caricaturali posizioni femministe, a patto però che s’impegnino a diventare cool come gli altri e abbandonino quella vulgata da gattare. Il resto del film è poi un’incoerente processione di eccentrico esibizionismo decadente.

Cos’è che rende Arrivederci, professore un così lucido esempio di cosa aspettarsi da ciò che, nel senso comune, è la cultura al giorno d’oggi? Semplicemente la non sistematica accozzaglia di una serie di cliché. Questa bruttura artistica, questo insieme di soluzioni narrative scontate a intenzioni cinematografiche maldestre, finisce per fornirci con inconsapevole realismo una bruttura etica inerente alla nostra sporca ecologia culturale. L’idea di sapere che viene professata dal protagonista è quella di un ermetismo vecchio stile, una separazione interna al mondo tra persone di serie A e persone di serie B. Non importa tanto apprendere, umilmente processare e conservare un contenuto; l’obiettivo delle lezioni del professore, di ciò che il professore insegna agli studenti, è il governo dell’universo, come da lui stesso affermato, nell’esclusiva ragione di una piacevole eccentricità.

Non tanto parlare il linguaggio di tutti per trovare soluzioni comuni, ma parlare un linguaggio oscuro e codificato, aperto ai soli eletti di una scuola invisibile, che permetta di circuire piuttosto che guidare il mondo sotto il vessillo del sapere, come da tradizione illuminista. Agli studenti – idealmente coprotagonisti della pellicola, ma smarriti nei confusi fini della narrazione – non viene data la possibilità di arricchirsi di un privilegio universale, essi vengono originariamente esclusi da loro stessi: nel cacciare dalla classe chi non corrisponda al suo ideale estetico, pure gli inclusi soffrono del marchio dell’escluso, perché vengono adottati solo in ragione di caratteri periferici, aspettuali, superficiali di aderenza a un progetto edonista. Edonismo senza piacere: posa intellettuale che campa del proprio status e affonda le proprie radici nell’esibizione di una messinscena. A Richard non importa che ai suoi studenti sia servito un romanzo: per lui conta che questi dimostrino di saper dirigere una pantomima a regola d’arte, che s’inventino stratagemmi per impreziosirsi e si dimentichino dell’effettivo valore della lettura. Alla studentessa (femminista e non curata) che espone in maniera sì rigida, sì scolastica, ma completa e scientificamente meditata la lettura di Moby Dick, il professore dà una A-; alla studentessa (piacente ed eroticamente vicina al docente) che espone il suo libro in maniera spettacolare, decadente ed eccentrica, il professore dà una A piena. La differenza tra quel “-“ e quel “piena” è indicativa dello sconvolgimento degli originari pilastri del pensiero, quello baconiano che elogia la diffusione e biasima il mistero, quello aristotelico che ama il sapere come fonte etica, quello platonico che antepone la conoscenza reale alla messinscena sofistica, quello eretico che evidenzia l’eroismo dei precedenti fini culturali.

Intellettuali, professori, che passano il loro tempo a mostrarsi, piuttosto che a chiarire. Indottrinatori che si spaventano del loro ruolo, preferendo arricchirsi ed arricchire il proprio pubblico dei benefici estetici e sociali del sapere, pur senza impugnarne realmente l’essenza. La cultura che rischia di dominare l’opinione che si ha su di essa in generale è quella di Richard: un intellettuale che dimentica di sapere per evitare di cambiare il mondo. Ci chiederemmo, a questo punto, di cosa potrebbe effettivamente parlar mai quel nuovo, grande romanzo del professore.


FONTI

“Arrivederci, professore”, diretto da Wayne Roberts, 2019

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