I racconti alla finestra di Gail Albert Halaban

Le persone sono come quelle finestre di vetro a specchio.

Brillano e luccicano quando il sole è alto, ma quando arriva l’oscurità,

la loro vera bellezza si rivela solo se vi è una luce all’interno.

Elizabeth Kubler-Ross

 

Gail Albert Halaban, Parigi

Chi non si è mai interessato alle vite degli altri? A ciò che accade dal lato opposto della strada, dietro quella finestra, in quell’appartamento, a quella persona. Si scavalca il semplice piacere voyeuristico o l’appagamento estetico della visione. Siamo affamati di una storia, di una narrazione che non ci appartiene ma di cui vorremmo sapere di più. E la fotografa newyorkese Gail Albert Halaban appaga il nostro desiderio con il progetto fotografico Out of Window. Per la prima volta esposto nel 2009 e inserito in una raccolta fotografica nel 2012. Lo segue a ruota Paris Views, del 2014, sempre portavoce dello stesso obiettivo: Osservare una quotidianità altra filtrata dal vetro di una finestra domestica.

Nasce tutto dalla più ingenua curiosità. Spiare la vita di qualcun altro nascosti dietro una tenda, un vetro appannato, una pagina di giornale. Ogni persona è accompagnata da un’ombra che ne racconta la storia e che noi cerchiamo dietro lo sguardo dell’individuo. Triste, emozionato, impaurito, eccitato. Di solito accade tutto in un istante, in un attimo che sfugge come il passante che seguiamo con gli occhi. Sulla metropolitana, sulla banchina di un treno, in un bar, sul balcone a stendere i panni. Quando passa il momento, non rimane nulla. Che ne sarà di quella persona?

«Vivendo nelle città, il nostro sguardo è costantemente attratto dalle finestre che si affacciano sulle strade o sopra di noi, mentre camminiamo. Questa silenziosa e onnipresente curiosità umana cresce maggiormente nelle metropoli. Ma attraverso le foto, il nostro sguardo si può soffermare senza fretta, e si può esplorare la realtà- o la fantasia- delle vite vissute al di là dei vetri»

Alfred Hitchcock, La finestra sul cortile (1954)

Ci pervade una condizione di immobilità che non permette di approfondire la conoscenza. La sfuggevole comunicabilità visiva si traduce in incomunicabilità verbale. Ed è questa la svolta. L’immobilità. La condizione da cui parte Alfred Hitchcock per uno dei suoi capolavori: La finestra sul cortile. La trama è semplice. Un fotorepoter, a seguito di un incidente, è costretto a rimanere nel suo appartamento, su una sedia a rotelle. Annoiato, decide di spiare, con un binocolo e con il teleobiettivo della propria macchina fotografica, i vicini. L’immobilità invita quindi a raggiungere con lo sguardo ciò a cui non si può arrivare con la fisicità corporea.

Gail Albert Halaban parte da qui, nel 2008, durante le sue notti insonni da neomamma appena trasferitasi a New York. Una nuova città, un nuovo quartiere, un nuovo appartamento. Tutto le è ancora sconosciuto. Le cullate notturne del bebè la portano così ha interrogarsi sull’esterno, su un altrove intrecciato di vite non ancora scritte. Tutte quelle che le interessano risiedono nel palazzo dirimpetto al suo e negli innumerevoli seguenti che saranno poi oggetto dei suoi scatti. Alveari reticolati dove ogni cella è un piccolo schermo illuminato. Una finestrella da calendario dell’Avvento, che invita il suo spettatore a guardare oltre. Out of Window. Fuori dalla finestra. Una condizione paradossale, laddove l’invito a guardare fuori dalla propria finestra, è solo indirizzato a guardare dentro un’altra finestra.

Gail Albert Halaban, New York

“The windows are fragile borders between the familiar and the unknown, between the rushing noises of the city and the timeless quiet of private lives.”

(Le finestre sono il sottile limite tra il familiare e lo sconosciuto, tra i rumori scoppiettanti della città e la tranquillità senza tempo delle vite private)

Le finestre sono squarci di luce in freddi complessi cementati. Si può capire se una persona è in casa solamente guardando, dall’esterno, l’interno della sua finestra. Ma non è mai uno sguardo invasivo, mantiene sempre una debita distanza. Da inquadratura cinematografica, priva di zoom. Come se ne serve Gianfranco Rosi nel suo film documentario Il Sacro Gra. Il regista racconta le vite degli abitanti dei palazzoni occupati temporaneamente sul Grande Raccordo Anulare. Li inquadra dietro le loro finestre e li presenta allo spettatore come se fossero tableaux vivants, quadri viventi in mostra.

Gail Albert Halaban, Istanbul

Non serve una manipolazione artistica del materiale osservato, perché sono i soggetti stessi a parlare e a raccontare inconsapevolmente la loro storia. La semplice quotidianità inquadrata dall’obiettivo si trasforma in performance. Così il cinema, e prima di questo la fotografia, si propongono come finestra sul mondo, come affermava il critico cinematografico André Bazin. E Gail Albert Halaban promuove un’idea originale nel rendere oggetto della sua “finestra strumentale” il simbolo della finestra e ciò che questo racchiude.

Il lavoro della fotografa nasce dalle location e dall’incontro diretto con le persone che vi abitano, alcune delle quali sono preventivamente cercate sugli elenchi telefonici.  Il progetto ha seguito nel corso degli anni un’evoluzione spontanea e ramificata in numerosi centri urbani internazionali. In Europa sono state protagoniste capitali come Parigi, Berlino, Amsterdam e Istanbul. L’iniziativa ha raggiunto poi anche l’Italia, in un viaggio di otto settimane lungo la penisola tra Milano, Roma, Firenze, Napoli e Palermo. A livello internazionale si sono affermati invece nomi come Bangkok, New York, Los Angeles e Buenos Aires.

Un aspetto importante del lavoro dell’artista è creare, nel momento di incontro con abitanti e luoghi, un rapporto di fiducia con i soggetti che saranno poi rappresentati negli scatti. Complessivamente, Gail è rimasta soddisfatta dall’interazione con i suoi protagonisti e dalla disponibilità mostratale. Questo è avvenuto in tutti i Paesi in ugual maniera, ad eccezione dell’Argentina. Lì, a causa del fenomeno politico recente dei desaparecidos, ovvero della scomparsa forzata di persone accusate di attività anti governative, non è stato facile introdursi nelle case di estranei. Ma, indipendentemente dal luogo di realizzazione degli scatti, il messaggio dell’artista è univoco e indirizzato a combattere la solitudine di una contemporaneità globalizzata.

Sempre più spesso motivazioni di lavoro, studio o altre esigenze personali inducono persone di tutto il mondo, ogni giorno, a diventare isole in posti lontani da casa. Tuttavia, sostiene Gail, “Anche se soli, non dovremmo mai essere soli”. Ognuno deve poter ritrovare nella vita di un altro  la familiarità della propria routine. Sono infinite le congiunzioni dell’unica, imperitura, storia dell’uomo. Questa si svincola tra le stanze degli appartamenti, dove ogni individuo può sentirsi protagonista consapevole di una narrazione fotografica. C’è consapevolezza, perché c’è accordo. Posizioni accuratamente studiate, con tempi di posa da mezz’ora a cinquanta minuti. La regia dietro all’improvvisazione. La spontaneità che, nonostante tutto, rimane.

«Ecco perché́ le farò stampare in formato grande, sessanta per ottanta: in nessun luogo al mondo ho trovato così tanti particolari architettonici, decorativi e umani»

Dragan Todorović

Ogni protagonista si crogiola nella minuziosità decorativa della propria stanza, conscio di essere osservato. L’obiettivo nascosto è quello della Phase One IQ180 dell’artista. Gail però non si serve di funzioni di Instant Zoom e Focus Mask. Non vuole il ritratto in primo piano, emotivo, di forte impatto estetico come quello della donna alla finestra del fotografo serbo Dragan Todorović. Gail rimane distante, quasi oggettiva, anche se dai volti al di là della finestra, traspare l’emozione. Del non conosciuto, del segreto, di un’intimità familiare che non ci appartiene ma forse vorremmo come nostra.

In alcuni casi, quindi, la comunicabilità veicolata dall’atto artistico riesce a sopperire l’incomunicabilità reale. Le fotografie racchiudono silenzi. Parole che rimarranno ingabbiate tra le mura domestiche, ma che traspaiono dai gesti catturati dagli scatti. Così vicini eppure intangibili, perché ognuno conduce la propria esistenza disinteressandosi di quella degli altri. Persone di diverse etnie, religioni, ma anche semplicemente di diverse regioni geografiche di uno stesso Paese. Persone che conducono la stessa routine. Lavano i piatti, buttano la spazzatura, rifanno i letti, passano l’aspirapolvere, si addormentano sul divano davanti alla TV.

Ma quella di Gail Albert Halaban non è solo la rappresentazione di una geografia umana, ma anche urbana. Dalla newyorkese Out of Window alla parigina Vis a vis, la fotografa racconta squarci di città attraverso le sue persone. Quello che manca invece negli scatti del fotografo tedesco Michael Wolf, che sceglie di ritrarre la metropoli mostrandone la densità architettonica. Prima con i tetti parigini in Paris Abstract, poi con i babelici grattacieli di Hong Kong in Architecture of Density. Non traspaiono volti dalle sue fotografie, solamente frammenti di architettura urbana. Mentre a Parigi lo sguardo aereo permette di illustrare una panoramica di tegole e comignoli, nella metropoli cinese lo spettacolo è totalmente differente.

Michael Wolf, Architecture of Density

Immense strutture di cemento, reticolate tra migliaia di finestre. Tutte della stessa grandezza, tutte geometricamente allineate. Piccole, piccolissime, incapaci di farvi respirare una vita all’interno. Sterili, vuote, poiché prive di vita. Riflettono gli appartamenti all’interno, disabitati perché gli inquilini li usano solamente per dormire, troppo indaffarati dal lavoro per viverli più piacevolmente. Le finestre in questo caso raccontano storie serializzate, tutte uguali tra loro. Di giorno le luci sono spente, di notte si accendono come infinite lucciole che però non vogliono mostrarsi al loro interno. Non conosciamo le storie degli abitanti. La distanza di Wolf è troppo elevata, ma è così che la vuole il fotografo.

Ciò che cattura il suo obiettivo fotografico è la semplice finestra. Simbolo storico di separazione tra interno e esterno. Dalla componente vedutista e naturalistica rinascimentale, alla dimensione domestica e borghese ottocentesca, fino all’introspezione psicologica novecentesca, la finestra agisce contemporaneamente come motore centrifugo e centripeto. Si propone innanzitutto come varco, passaggio di liberazione da una condizione di oppressione e chiusura. Lo mostrano alcuni scatti di Dragan Todorović, che colloca le sue modelle in stanze anguste e tetre dove l’unico elemento illuminante è fornito dalla presenza cardine di una finestra.

Da un lato quindi la finestra invita famelicamente l’osservatore a guardare fuori. Dall’altro però funge come catalizzante centripeto, indirizzato all’interno. In Gail Albert Halaban sono presenti entrambe le dimensioni, così come nei dipinti di Edward Hopper. Nel suo caso agisce sia lo sguardo dall’interno, come in Morning Sun, dove una ragazza è seduta sul suo letto e guarda pensierosa fuori dalla finestra, sia lo sguardo esterno, dalla strada, o da un’altra finestra. Questo secondo aspetto è più affine all’estetica di Gail e compare in opere come Room in New York. Una coppia è ritratta nel suo appartamento. L’uomo legge il giornale seduto al tavolo, mentre la donna appoggia mollemente le dita sul pianoforte.

Edward Hopper, Room in New York

Sono nella stessa stanza, a meno di un metro di distanza, ma non si guardano, non si parlano. Tedio da routine o rottura nella vita coniugale? Non ci è dato saperlo, ma vorremmo scoprirlo. Ed è qui che scatta inevitabilmente la curiosità del voyeur. Di chi vorrebbe seguire, quotidianamente, le vicende di chi osserva. Come La ragazza del treno, studiare l’intimità familiare di una realtà che è sempre sotto i nostri occhi, indagandola, a fondo. Tuttavia, i volti di Hopper sono respingenti, tratteggiati con fredde pennellate che non ne curano i connotati. Appaiono offuscati, come se il pittore non li volesse mostrare completamente. Come se parte della loro storia, quella che traspare dal viso, dovesse rimanere confinata dietro un vetro infrangibile.

Hopper mantiene una distanza consapevole dai suoi personaggi. Si nasconde dietro un osservatore discreto, coinvolto a partecipare al dramma quotidiano, ma al tempo stesso tenuto lontano. Nel caso degli scatti di Gail è differente. Esiste un rapporto di collaborazione e fiducia tra i soggetti e l’artista-spettatrice. Dalle sue opere traspare un maggior calore, l’invito dei personaggi a lasciarsi piacevolmente osservare, senza diffidenza. Come due amici che si mandano messaggi in codice dalle finestre delle loro stanze. Che si guardano, che si parlano. Dall’immagine tipicamente americana del video musicale You belong with me di Taylor Swift, al più evocativo scambio di luci da torcia del film Sicilian Ghost Story. La comunicazione è universale, nonostante cambino i suoi protagonisti.

Sono soggetti umani, non dipinti, coinvolti emotivamente nella rappresentazione. Spesso Gail sceglie ambientazioni notturne, cieli al tramonto o nuvolosi, in modo che la luce all’interno della finestra possa risplendere. Una luce calda, una luce rivelatrice. Così la finestra si trasforma da rigido elemento architettonico a labile confine emotivo, specchio della nostra interiorità. L’azione del guardare fuori può assumere una valenza catarchica. Vedere inscenate passioni o silenzi altrui può aiutare lo spettatore, più che a liberarsi da tali aspetti emotivi, a comprenderli.


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