Sandro Penna: il poeta melanconico

Ecco il fanciullo acquatico e felice.

Ecco il fanciullo gravido di luce

più limpido del verso che lo dice.

Dolce stagione di silenzio e sole

e questa festa di parole in me.

“Penna è il solo poeta del Novecento il quale abbia tranquillamente rifiutato, senza dare in escandescenze, la realtà ideologica, morale, politica, sociale, intellettuale del mondo in cui viviamo”. (Cesare Garboli, Penna Papers, 1984)

Sandro Penna, poeta perugino cresciuto sotto l’evidente insegna letteraria di autori come Leopardi e Rimbaud, è il degno erede novecentesco e italiano di una poetica del disinteresse, mascherata in evidenze artistiche più implicite di autori come Baudelaire e meno violente di autori come Lautréamont. Un’estetica lucida, volutamente confondibile con una spiritualità personale, che prende le forme di un misticismo d’occasione e di un autobiografismo spregiudicato. Lo spirito dell’arte di Penna, intessuto nelle maglie della sua vita privata, è unico nel suo genere per l’incontro originale di due fattori: anzitutto la potenza simbolica di un misticismo passionale. La significazione intellettuale, metafisica e complessa del momento. Al contempo una visione vitale del panorama-mondo, una versione sciamanica del sapere intorno a esso; e un’antica facoltà di esprimersi in maniera rapida e chiara intorno alle verità della pratica di vita. Se nel primo caso si pensa ai mondi naturali di Leopardi e (in qualche misura) Pascoli, nel secondo è invece spontaneo il richiamo ai lirici greci, oltre che ad un certo ermetismo italiano.

Penna fu sempre lontano dall’intenzione d’intendere la sua opera poetica come un cosmo dotato di struttura. Le sue poesie, piuttosto, sono intrinsecamente solitarie, si aggregano per esigenze editoriali pur restando tascabili in maniera indipendente, accartocciate senza un criterio. Garboli parlava di poesie che sembrano quadri, che esauriscono quindi il loro valore in se stesse e che, all’occorrenza, si organizzano in mostre, o meglio, successioni. Il ritmo spontaneo, i colori naturali e la vocazione al mistero, all’insondabile autobiografico, rendono la poesia di Penna una dichiarazione stilisticamente inattuale e moralmente aliena da contesti specifici. Un linguaggio enciclopedizzato dai suoi versi più celebri:

La vita… è ricordarsi di un risveglio

triste in un treno all’alba: aver veduto

fuori la luce incerta: aver sentito

nel corpo rotto la malinconia

vergine e aspra dell’aria pungente.

 

Una definizione occasionale, un linguaggio che mantiene la sola pretesa della sua chiarezza. La lingua di Penna vuole essere in qualche modo universale, spontaneamente intuibile. Una smaccata limpidezza, familiare ai quadri di Hockney:

Il mare è tutto azzurro.

Il mare è tutto calmo.

Nel cuore è quasi un urlo

di gioia. E tutto è calmo.

Ma si perde il senso della poetica, o peggio, si riduce ad un minimalismo astratto, se non si dà la dovuta rilevanza all’elemento più significativo delle scenografie penniane: la presenza relazionale. Non solo la presenza dell’altro, ma l’evidenza di un legame con lui, che spesso è un maschio ed un fanciullo (nel caso raro in cui non lo fosse, è comunque un adulto che conserva i caratteri simbolici di un giovane). Questo è chiaro in quello che si può ritenere uno dei componimenti più prestati all’esempio per l’opera dell’autore, la poesia Scuola:

Negli azzurri mattini

le file svelte e nere

dei collegiali. Chini

su libri poi. Bandiere

di nostalgia campestre

gli alberi alle finestre.

Qui emergono, pur se implicitamente, i vettori narrativi dell’opera di Penna: la spensierata noia giovanile (da contrapporre alla spietata Noia di Baudelaire) e la componente metereologica, che è strettamente legata agli umori dei protagonisti e che si svolge in una continua nostalgia dell’estate. In Penna è proprio l’estate la stagione degli amori. La “noia verde della primavera” (Il Balcone) non viola certo la spensieratezza infantile, ma la contiene in un sospiro di attesa, un’attesa dell’estate. La relazione che spesso Penna intrattiene con i suoi protagonisti è una relazione d’amore, che sarebbe forzato incasellare nelle categorie di platonico, erotico, etc. Basti pensare a un sentimento vitale, che pervade la natura come un tutto, che il poeta non dimentica di scovare ad ogni occasione:

Esco dal mio lavoro tutto pieno

di aride parole. Ma al cancello

hanno posto gli dèi per la mia gioia

un fanciullo che giuoca con la noia.

Alcuni critici hanno scorto una profonda tristezza nascosta in questi versi di apparente gioia esistenziale, spesso collegandosi alle vicende private della vita dell’autore. Ma si fatica a dedurre schemi e cause, nei ritmi di una così virginale contingenza, occasionalità del sentimento legata al luogo di manifestazione:

Fuggono i giorni lieti

lieti di bella età.

Non fuggono i divieti

alla felicità.

Ma cos’è questa giovinezza tanto decantata, custode dei momenti più ricchi e più completi della natura?

Forse la giovinezza è solo questo

perenne amare i sensi e non pentirsi.

Qui è la risposta, qui si spiega il limpido mistero della poesia di Penna.

La giovinezza è quell’universale fantastico che pervade lo stile e il significato di un’espressione meditata ma immediata. Freschezza, pervasività, tenerezza. Questi sono i caratteri della grammatica, dei sentimenti e degli spazi poetici dell’opera di Penna, sia che li si voglia intendere nella loro purezza, sia che si voglia derivarli da quella lenta malinconia che, per certe opinioni, pervade i suoi quadri.

Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo

che il mio bianco taccuino sotto il sole.


Fonti:

S. Penna, Poesie, Mondadori, Milano, 2019

Immagini:

Immagine 1

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